Comunicato della Conferenza Episcopale di Cuba

Offriamo poi il testo della comunicazione dei vescovi che è stata letta alle Messe del 20 aprile 1969.

AI NOSTRI SACERDOTES E FEDELI
Cari fratelli e figli:
Nel corso della precedente Conferenza – tenutasi all’inizio di marzo – abbiamo iniziato a riflettere sui documenti provenienti dalla Seconda Conferenza Generale dell’Episcopato latinoamericano, al fine di tradurre in norme pratiche i principi generali di rinnovamento ivi contenuti.
Mentre riprendevamo questa riflessione ora, abbiamo scelto come tema centrale il bellissimo discorso inaugurale con cui il Santo Padre, in visita a Bogotà in occasione del trentanovesimo Congresso Eucaristico Internazionale, ha voluto aprire i dibattiti che si sono svolti più tardi – per uno spazio di undici giorni – nella città colombiana di Medellin. Un discorso, tra l’altro, ricco di sagge raccomandazioni parentali che vanno da ciò che è più intimamente nostro, cioè le linee guida relative alla nostra santificazione, alla testimonianza di vita, al valore e ai rischi della fede, della preghiera e del ministero della parola – fermandosi in particolare negli orientamenti apostolici – agli orientamenti pratici intorno al fatto della convivenza in un continente scosso dagli ardui problemi di sviluppo e dalle conseguenze da questo derivano per il nostro inserimento consapevole nella nuova fase che avanza in mezzo a noi.
“Si apre oggi, con questa visita”, esclamò solennemente il Papa, “un nuovo periodo di vita ecclesiastica”. Ha aggiunto più tardi: “Il futuro richiede uno sforzo, un’audacia, un sacrificio che metta la Chiesa in un profondo desiderio. Siamo in un momento di riflessione totale. Siamo sopraffatti dalla particolare inquietudine del nostro tempo, specialmente in questi Paesi proiettati verso il loro pieno sviluppo e sopraffatti dalla consapevolezza dei loro squilibri economici, sociali, politici e morali, compresi i Pastori della Chiesa – giusto?– avallano l’a desiderio dei popoli in questa fase della storia della civiltà” (Doc. Med. II, pp. 15-16).
Facendo eco a queste luminose parole del Santo Padre, la Conferenza di Medellin ha indicato nel suo messaggio a tutti i popoli dell’America Latina: “Come Pastori con una responsabilità comune, vogliamo impegnarci nella vita di tutti i nostri popoli nella straziante ricerca di soluzioni adeguate ai loro numerosi problemi”. E ha concluso: “Per questo siamo solidali con le responsabilità emerse in questa fase di trasformazione in America Latina” (D.M. II, pp. 32-33); non senza preavviso successivo: “La nostra missione pastorale è essenzialmente un servizio di ispirazione e di educazione delle coscienze dei credenti per aiutarli a percepire le responsabilità della loro fede, nella loro vita personale e nella loro vita sociale” (D.M., II n. 6, p. 54).
Dove si trova l’originalità di questo “nuovo periodo di vita ecclesiastica” evidenziata dal Papa e quali sono le responsabilità a cui la dichiarazione di Medellin ci compromette? Comprendiamo che, insieme ad altri aspetti altrettanto importanti, questa originalità risiede in una rinnovata visione della nostra morale sociale in linea con le responsabilità che ci postie è il problema dello sviluppo. A questo proposito abbiamo discusso le nostre riflessioni nel corso della riunione, i cui risultati procediamo a fornire.

Innanzitutto, è nostro dovere sottolineare che: “L’originalità del messaggio cristiano – come dice la Conferenza di Medellin – non è direttamente l’affermazione della necessità di un cambiamento di struttura, ma l’insistenza sulla conversione dell’uomo , che richiede quindi tale cambiamento” (D.M. II, p. 52).
La conversione porta dunque con sé un cambiamento di condotta alla ricerca di una maggiore fedeltà alla volontà di Dio, fedeltà che tenga conto, da un lato, della morale rivelata e, dall’altro, dell’adattamento di tale moralità secondo i “segni dei tempi”, secondo una visione attuale della virtù della prudenza. Tuttavia, ci sono due chiari “segni dei tempi” ai nostri giorni: in primo luogo, lo sviluppo dei popoli; in secondo luogo, una complicata rete di relazioni umane, sia nell’ordine nazionale che internazionale. Ne consegue che semplicemente la moralità individuale, né una moralità sociale che pone la sua enfasi, quasi esclusivamente sull’uso di cose esterne, non è sufficiente; richiede una moralità sociale, che senza ignorare la realtà oggettiva, ha tuttavia, come punto di partenza, la persona umana, nella sua vocazione allo sviluppo integrale.

Oggi questa moralità presenta ad ogni uomo il dovere di compiere la sua vocazione allo sviluppo. E nell’ordine pratico delle realizzazioni tale dovere crea senza dubbio una solidarietà umana universale. L’amore deve essere per il cristiano l’anima di questo atteggiamento generoso.
In altre parole: l’atteggiamento del cristiano implica un rinnovamento della sua morale sociale, specialmente quando è immerso in una realtà come la nostra in cui il problema dello sviluppo si trova di fronte come un motivo fondamentale.
Le linee principali di questa rinnovata “moralità sociale” sono contenute in due documenti del Magistero Universale della Chiesa che dovrebbero essere inclusi nella piena formazione di tutti i cristiani: la costituzione pastorale Gioia e speranza del Concilio Vaticano II; e la celebre enciclica sul progresso dei popoli di Sua Santità Paolo VI.
“Nei disegni di Dio”, proclama il Papa nella populorum progressio, “ogni uomo è chiamato a promuovere il proprio progresso, perché la vita di ogni uomo è una vocazione data da Dio per una missione concreta” (N. 15). Questo sviluppo, che “non si trae dalla semplice crescita economica”, “non è facoltativo”, “ma costituisce una sintesi dei nostri doveri” (N. 16); affinché, insomma – grazie ad un’opzione libera dovuta a tutto il rispetto – “con il suo inserimento nel Cristo vivente, l’uomo abbia la via aperta verso un nuovo progresso. che gli conferisce la sua massima pienezza; tale è lo scopo supremo dello sviluppo personale” (N. 16).
Inoltre”, continua il Papa, “non è solo questo o quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a questo pieno sviluppo” affinché “la solidarietà universale che è un fatto e un beneficio per tutti è anche un dovere” (N. 17). Sviluppo che “essere in nome della pace” (N. 87), consisterà infine nel “passo, per ciascuno, da condizioni di vita meno umane a condizioni più umane” (N. 20).
Da parte sua, la costituzione pastorale Gioia e Speranza richiama la nostra attenzione sul fatto che lo “sviluppo” deve essere sempre “al servizio dell’uomo” e deve rimanere sempre “sotto il controllo umano”, poiché ogni uomo concreto e tutti gli uomini devono essere sempre i soggetti insostituibili e inviolabili dello sviluppo integrale e solidale (G. S. n. 64-65).
Naturalmente, questa non è un’azienda facile. Al contrario, si tratta di un compito immenso. Lo stesso Concilio Vaticano II ci dice: “I popoli che sono in fase di sviluppo, capiscono bene che devono cercare espressamente e finemente, come fine al proprio progresso, la perfezione umana dei loro cittadini”. E prosegue: “Tenete presente che il progresso nasce e aumenta soprattutto, attraverso il lavoro e la preparazione dei popoli stessi, un progresso che deve essere guidato non solo dall’aiuto esterno, ma soprattutto dallo sviluppo dei propri punti di forza e dalla coltivazione dei propri doni e tradizioni” (G.S., n. 85).
L’importanza del lavoro nella prospettiva di una rinnovata moralità dello sviluppo deve necessariamente indurci a rinnovare la nostra spiritualità in relazione ad essa. Anche se deploriamo gli eccessi che possono accompagnare quella realtà necessaria per raggiungere lo sviluppo e utilizzare tutti i mezzi legittimi per superarli, l’opera del cristiano avrà sempre una motivazione spirituale che è sua e che nessuno potrà togliergli. Nessuna sintesi migliore, né più autorevole in questo senso, di quella offerta dalla stessa enciclica sul progresso dei popoli: “L’opera è stata amata e benedetta da Dio. Creato a sua immagine l’uomo deve cooperare con il creatore nella perfezione della creazione e segnare, a sua volta, la terra con il carattere spirituale che egli stesso ha ricevuto”. Perché “ogni lavoratore è un creatore”. “Inoltre, vivere insieme, partecipare alla stessa speranza, sofferenza, ambizione e gioia, il lavoro unisce le volontà, avvicina gli spiriti e scioglie i cuori; quando lo fanno, gli uomini scoprono di essere fratelli. Eppure la sua ambivalenza e i rischi di una possibile disumanizzazione “l’opera degli uomini molto di più per il cristiano ha ancora la missione di collaborare alla creazione del mondo soprannaturale, non finito, fino a quando non ci riuniamo tutti per costituire quell’uomo perfetto che parla di san Paolo, che compie la pienezza di Cristo” (P. P. n. 27-28).
Non siamo estranei alle implicazioni e ai sacrifici di questo atteggiamento cristiano. Ma il Signore ci ha detto: “Tu sei la luce del mondo. Una città in cima a una montagna non può essere nascosta. Né una lampada per metterla sotto il celemín, ma sul candelabro per illuminare tutti in casa. Accendete così la vostra luce davanti agli uomini, perché veda le vostre buone opere e glorifiri il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,13-16).
Inoltre, quanti eccessi non sono dovuti alla situazione specifica di isolamento in cui viviamo da diversi anni! Chi di noi ignora le difficoltà di ogni tipo che ostacolano il cammino che dovrebbe portare allo sviluppo?
Difficoltà interne, causate dalla novità del problema e dalla sua complessità tecnica ma anche dal prodotto delle carenze e dei peccati degli uomini; ma, non meno importante, difficoltà esterne, legate alla complessità che conditionsa le strutture contemporanee delle relazioni tra popoli ingiustamente svantaggiati per paesi deboli, piccoli e sottosviluppati. Non è questo il caso del blocco economico a cui è stato sottoposto il nostro popolo, la cui estensione automatica accumula gravi disagi alla nostra Patria? Disagi che pesano soprattutto sui nostri lavoratori in città e in campagna, sulle nostre casalinghe, sui nostri figli e giovani in crescita, sui nostri malati, insomma, per non allungare i casi, su tante famiglie colpite dalla separazione dei loro cari.
Cercando il bene del nostro popolo e dei nostri fedeli al servizio dei più poveri secondo il mandato di Gesù Cristo e l’impegno proclamato di nuovo a Medellin, denunciamo questa ingiusta situazione di blocco che contribuisce a sofferenze inutili e rende più difficile la ricerca dello sviluppo. Chiediamo pertanto la consapevolezza di coloro che sono in grado di risolverlo di intraprendere azioni decisive ed efficaci per ottenere la cessazione di questa misura.
Al termine di queste riflessioni facciamo nostre le parole rivolte da Paolo VI ai Vescovi dell’America Latina che esprimono l’atteggiamento del cristiano nei confronti del problema di un mondo che soffre e lotta per raggiungere il suo sviluppo integrale. “La profonda e lungimirante trasformazione di cui la società ha bisogno in molte situazioni attuali, la promuoveremo amando più intensamente e insegnandole ad amare, con energia, con sapienza, con perseveranza, con atteggiamenti pratici, con fiducia negli uomini, con certezza nell’aiuto paterno di Dio e nella forza innata del bene” (D.M II, p. 27). Tutte queste raccomandazioni del Santo Padre hanno un significato speciale in questo ottavo della Pasqua della Risurrezione del Signore, in cui contiamo per realizzare un profondo cambiamento nella nostra vita cristiana.

L’Avana, 10 aprile 1969.

Evelio, arcivescovo dell’Avana
Alfredo, vescovo di Cienfuegos
Manuele di Pinar del Río
Giuseppe di Matanzas
Adolfo di Camaguey
Alfredo, vescovo ausiliare dell’Avana
Fernando, vescovo ausiliare dell’Avana
Pedro, amministratore apostolico di Santiago de Cuba

 

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