Alla domanda se l’atteggiamento di Daniel Ellberg, il funzionario che ha rubato documenti segreti del governo degli Stati Uniti sulla guerra del Vietnam, possa in qualche modo essere considerato un gesto “precursore” della decisione di Snowden, Spielberg reagì con una risposta piuttosto conservatrice. A suo parere, sembrava non vedere che l’atteggiamento del primo – secondo il rapporto di MacNamara, di fermare una guerra che sia il Pentagono che la CIA conoscevano persa fin dall’inizio – non distingueva molto, in sostanza, dall’intenzione della seconda di evitare le procedure illegali di spionaggio che gli Stati Uniti impiegano non solo contro stranieri alleati o nemici , ma anche contro gli stessi americani, violando così le prerogative costituzionali del Primo Emendamento. Forse Spielberg intendeva eludere qualsiasi tipo di impegno politico, al di là delle ripercussioni del suo ultimo film, con presunte critiche all’attuale presidente Trump. Alla fine, la finzione è proprio questo, anche se la storia del suo film, scritto da una rookie, Liz Hannah, e dal già esperto Josh Singer, si ispira agli eventi della verità che diversi decenni fa catalizzarono il declino dell’amministrazione Nixon e le sue dimissioni dopo lo scandalo Watergate.
Forse per questo The Post: i segreti oscuri del Pentagono hanno un certo sguardo sentimentale al passato, tra nostalgici e addolciti, dove ciò che conta è infilare un sottilissimo promemoria a chi oggi intende dettare i disegni del mondo. Ma concordiamo sul fatto che Spielberg lo fa con un forte impulso – nonostante tutto – a “rinfrescare la memoria” di chi ha vissuto l’incubo che ha reso possibile la notorietà di un semplice giornale locale e del suo proprietario nel mondo del giornalismo americano; e fanno anche riconoscere Trump a immagine di Nixon, un personaggio presentato con sfumature intenzionali di caricatura.
Il Post… solleva scuse allo Stato di diritto, alla stampa libera e ad altri elementi secolari di orgoglio americano che dalla Dichiarazione d’Indipendenza erige gli Stati Uniti nel territorio “difensore e paladino della democrazia”. L’intransigenza del celebre Bren Bradlee (Tom Hanks) e del suo assioma “l’unico modo per difendere il diritto di pubblicare è l’editoria”, riassume il dramma di questo film che è stato dipinto di bianco nell’ultima edizione non asima degli Oscar, mentre il suo regista era fuori dalla lista dei migliori interpreti, nonostante una candidatura ai Golden Globes di cui è stato anche trascurato.
Tuttavia, questo nuovo titolo è buono all’interno dell’attuale situazione socio-politica americana. Il suo nucleo ideologico mostra con mesured didactism la crociata che intraprende la verità in quanto annulla una via di fallacia e manipolazione politica, con il rischio di respingere davanti alla legge in mano al dispotismo. E nel bel mezzo di questa battaglia, le riprese consentono altri incentivi per sostenere la rivendicazione delle donne in un mondo di egemonia patriarcale che recrimina e sottovaluta il loro potenziale, detenuto dalla tradizione secolare nello spazio domestico. Con The Post…, la poesia di Spielberg torna sull’estetica di quel cinema “serio”, di tema storico-politico, che tornerebbe ai titoli ante-riores degli ultimi anni – Monaco (2005), Lincoln (2012), Il ponte delle spie (2016)- per affrontare, pochissimi come lui, l’attualità da una prospettiva retrospettiva e anche provare, hic et nunc, una potente lezione di etica.
Non credo che ci sia un altro film realizzato da questo regista che ritiene necessario avere una lunga introduzione per immergersi nei vincoli del drammatico conflitto – l’occupazione americana in Vietnam, il relatore di Ellberg come analista politico e consigliere del Segretario di Stato McNamara, la manipolazione dell’opinione pubblica sulla veridicità degli eventi, le limitate possibilità che gli Stati Uniti vi convivano la guerra e il furto di documenti classificati , ecc.–; quasi quaranta minuti per completare il decollo e mettere sotto i riflettori due storie di vita intrinsecamente legate al potere. È questa, a mio parere, la cosa più strana del film; ma ciò che sembra essere a rischio di monotonia, finisce per rivelare la mesura della sua estrema pianificazione per portare la storia a un lieto fine.
Lo spettatore mette in guardia da una necessaria contestualizzazione che cerca di calar, nei suoi dettagli più rapidi, la nebulosa politica di un’epoca in cui non solo importanti battaglie sono state combattute nelle giungle vietnamite, ma anche all’interno di Casablanca e del Pentagono. Il Post… illustra i fatti e i fuori della retorica che, nel tempo, hanno cominciato ad essere dinamizzato da coloro che avevano appena reso possibili le campagne pro-guerra che manipolano l’opinione pubblica americana e globale. È anche, tra le altre cose, un film che dice il suo panegirico per rafforzare la quarta potenza nella nazione americana.
Nonostante il suo squisito conto, The Post… conferma solo ciò che era già noto: Spielberg è ancora un vecchio lupo, ancora destrorso, che evita il rischio nella sua esperienza di trascinare le emozioni. La grammatica di questo film segue insieme il classico tatto aristotelico per mettere, all’epicentro del suo dramma, storie di vita in conflitto con il potere, con l’inizio di un’atmosfera di incertezze e pericoli nella sua strategia visiva di claroscuros – un thriller politico con asomos al noir americano degli anni Settanta e cinema spia sui temi della Guerra Fredda – e un sound design che rivitalizza l’espressività di una calligrafia coreografica che contagio, nel frattempo, alla direzione degli attori. Perché nel profondo, The Post… è anche un film di personaggi, di densità psicologiche che sovrascrivono le differenze e i complementi di personalità che incarnano due colosso del cinema americano di oggi.
Kate (Meryl Streep) e Bradlee (Tom Hanks) sono personaggi disegnati negli antipodi. In loro, l’eccesso e il mangiare dettano le loro modalità comportamentali, imbricate in dramma in parallelo, fino a quando la sceneggiatura sceglie di attraversarle per evidenziare le sottili divergenze dei loro personaggi. Ognuno, a modo suo, partecipa a un processo di crescita interna, sia professionalmente che personalmente, alla matasse di insidie che arrivano, come prova qualificante, nel tessuto drammatico. Kate, in qualità di proprietaria del Post, è consapevole delle sue insicurezze e inesperienza alla guida della direzione del giornale; Bradlee è stufo della sua esperienza come redattore capo e capacità di comando nel gruppo dei giornalisti. Il programma narrativo del film chiarisce questi aspetti in quanto definisce le linee guida che porteranno entrambi i personaggi, nonostante i loro disaccordi iniziali, alla necessaria complementarità che permetterà loro di superare la prova finale.
Il Post… tiene lezioni sui suoi movimenti fotografici – sempre irrequieti, intriganti – pur preferendo svelare la frenetica scena della scrittura giornalistica; registra l’instancabile martellamento di vecchie macchine da scrivere come se lo facevano con la nostalgia di coloro che evocano il tempo epico. Gli intrighi tra rotazioni per prendere il controllo dell’attenzione pubblica nazionale e adrenalina esacerbando la caccia alle ultime notizie, promuovendo allo stesso tempo lo spionaggio, gli appelli a mezzanotte e le divergenze contro il potere finanziario detenuto dal private banking e dagli inserzionisti, respira gran parte del genio di Spielberg che rimane uno dei più importanti registi della filmografia universale degli ultimi tempi. L’interesse per il suo film è proprio il fascino con cui il suo rigore narrativo segue quei colpi di scena del biopic, della suspense e del thriller politico, purché i suoi personaggi si arruolino nella lotta tra il Bene e il Male, il classico mito di David contro il gigante, come veri eroi di una storia di guerra.
I critici hanno giustamente visto quanto questo film segua la linea di alcuni titoli memorabili sul giornalismo investigativo, e principalmente All The President’s Men (1976) di Alan J. Pakula. Non è inoltre impossibile dimenticare l’ultimo Spotlight (2015), premiato con l’Oscar di quell’anno. Potrebbe essere stato quest’ultimo, ancora molto fresco nella memoria delle sale decisionali dell’Hollywood Academy, un motivo pesante che ha impedito la decisione di trascurare il film di Spielberg. In tutti questi film, il ritratto del giornalismo americano concorda con un discorso manicheo e, per ovvie ragioni, mostra il suo lato più docile. Anche se non è all’altezza dell’iconica realizzazione di Pakula, The Post: The Dark Secrets of the Pentagon termina proprio dove inizia il Pentagono, e nonostante la distanza tra le date di realizzazione a vicenda, il film di Spielberg è una sorta di curioso “prequel” al precedente, con quella nota finale cinque in cui il suo regista sembra rilasciare , attingendo alle lezioni della storia, un paio di audaci avvertimenti a coloro che, dal potere, cercano di ostacolare la libertà di stampa, alla maniera dell’amico “buono” che non vuole non dichiararsi colpevole. Ω
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