Spielberg, genio e figura (II)

Ready Player One –Comienza el juego

È probabile che il 2018 sia stato un anno memorabile per coloro che seguono la filmografia di lunga data di Steven Spielberg, perché in poco tempo gli spettatori hanno avuto l’opportunità di vibrare con quell’altro lato della sua carriera – spesso diffamato – ma che si rivela, insomma, un cinema commerciale appetitoso e degno come gli altri suoi titoli di alto calibro artistico. Ready Player One – Il gioco inizia, nella sua traduzione spagnola – era già stato rinviato da Spielberg per allevare con The Post: i segreti oscuri del Pentagono un cinema “di emergenza”, tuttavia, la creatività del genio hollywoodiano non ha scoraggiato chi aspettava solo pochi mesi per assaggiare il nuovo blockbuster post-apocalittico, con la sua overdose di eccitazione e avventura.
Ready Player One è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Ernest Cline pubblicato nel 2009 e che è stato anche un bestseller tra i giocatori di varie latitudini. In questo libro, sono i protagonisti di una mega-avventura che li porta attraverso l’infinito mondo virtuale Oasis, mentre cercano una serie di uova di Pasqua nascoste tra innumerevoli enigmi e riferimenti alla cultura popolare degli anni Ottanta e Novanta. Lo stesso Cline e Zak Penn (X-Men: la decisione finale) avrebbero il compito di vestire questo corso principale con l’ovvio consiglio di Spielberg che aggiunge gli inevitabili camei ai film più iconici del palcoscenico, alcuni di se stesso.
In generale, Spielberg rimane fedele allo spirito avventuroso di quest’opera finché cammina già nella sua filmografia – Encounters in the Third Phase (1977), il classico Indiana Jones and the Hunters of the Lost Ark (1981), E.T., The Alien (1982), The Empire of the Sun (1987), Jurassic Park (1993), Artificial Intelligence (2001), Minority Report (2002), War of the Worlds (2005) , Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull (2008) o The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn (2011)– per discutere questioni riguardanti gli sviluppi tecnologici, la loro bontà e gli effetti dannosi su scala globale. L’era millenaria è intravista come un universo distopico in cui tutti preferiscono eludere una realtà corrosa e visibilmente stratificata che si aggiunge alle classi sociali svantaggiate nella marginalità più precaria. Wade Watts (Tye Sheridan), il protagonista, è il personaggio tipico che eseguirà un processo di metamorfosi nella sua eroica ascensione in una narrazione afflitta dalle avventure più inimmaginabili che violano i confini tra realtà e finzione. Ancora una volta il programma narrativo di questo film convalida l’efficacia del tatto ideologico del mito dell’eroe, in cui il nucleo centrale sostiene la classica battaglia tra Bene e Male, e la particolarità di un messaggio estetico che scommette sulle sue lezioni di amicizia, unità e intelligenza come armi per combattere un potere dispotico che firma e minaccia il destino del mondo.
Proprio alla fine del film, Halliday (Mark Rylance), il personaggio che ha ideato Oasis, mentre procura l’uovo di Pasqua che incoronerà Wade come vincitore della gara, gli dice da una prospettiva filosofica originale che ha lo scopo di riassumere l’intera ideologia del film: “[…] nonostante quanto sia spaventosa e dolorosa la realtà, è anche l’unico posto dove puoi mangiare decentemente. Quindi mette l’uovo virtuale nelle mani di Wade che guadagna un vero sguardo negli occhi di tutti nel mondo fisico. Wade capisce così l’enigma del gioco, che, insomma, punta a una metafora, fin dalla distopia futuristica del 2049, del nostro presente storico. Un pregiudizio baudillardiano è caratterizzato dall’ideologia di questo film nella sua apparente banalità, che sollecita la riflessione sull’incapacità degli attori sociali di distinguere tra realtà e fantasia, motivati da un eccessivo consumismo nelle società tecnologicamente avanzate; quanto siano vulnerabili anche la natura umana e la coscienza, quando è impossibile trovare alternative alla resistenza al dettato dell’obsolescenza programmata, pur rimanendo intrappolati sotto l’influenza dannosa dell’alienazione e della dipendenza dalle nuove tecnologie.
Che cosa ci porta, inoltre, in sospeso e ammirevole questa nuova proposta? Il modo in cui l’intento autoriale decide di rimanere fedele, almeno nello spirito, alla narrazione originale, di fare riferimento a tutta la importanza dell’universo virtuale a cui si riferisce. L’esposizione tecnologica di questo film supera di gran lunga il dinamismo di altri titoli recenti – Mad Max: Fury on the Road, George Miller, 2015 – così tanto genio creativo probabilmente guadagnerà le sue ricompense sul red carpet. Trasformando questo film in infiniti riferimenti a opere audiovisive iconiche nella storia del cinema ed elementi della cultura popolare negli anni ’80 e ’90, l’avventura del viaggio diventa un’esperienza a doppio senso – per i personaggi e lo spettatore – in un universo distopico in cui il virtuosismo CGI riesce a perdere la vertigine dell’emozione.

Spielberg
Spielberg

Se nel romanzo di Cline le sue poco più di quattrocento pagine esplorano ogni respiro di cultura popolare e videogiochi classici che hanno fatto la storia all’epoca, in RPO la risorsa del pastiche amplia le possibilità di espressione di una narrazione giocosa che sfida la memoria storica e rende lo spettatore un partecipante attivo di questo universo virtuale senza ostacolare minimamente i motivi dinamici fondamentali che danno vita alla storia. Si dice che Spielberg stesso abbia dichiarato che ci vogliono almeno sei volte per vedere questo film per identificare ogni dettaglio inserito, ma è sufficiente per la prima volta rivivere brani memorabili di titoli iconici come The Glow di Kubrick, vibrare con riferimenti alle Goonies e agli A-ha, o accompagnare chiaramente la passerella per personaggi classici come Kong, dinosauri Jurassic Park, He-man, Tartarughe Ninja, Battletoads, Alien e avatar infiniti che non sfuggono alla furia di Chucky, The Killer Doll.
Si tratta del lavoro di post-produzione più eccessivo e straordinario in effetti speciali che l’Industrial Light & Magic ha fatto negli ultimi anni, con il quale Spielberg non solo supera se stesso – Jurassic Park, Minority Report – ma ci legge anche un nuovo titolo che rivoluziona la storia del cinema in questo settore. Ready Player One ha anche la straordinaria sensazione di farci dimenticare che partecipiamo a immagini create al computer, onorando il messaggio estetico del suo film. Che cosa c’è contro di essa, tuttavia, della sua eccessiva? Forse il rimprovero allo straripamento di un’avventura virtuale che, a volte, risente della profondità psicologica della vera protagonica, con avatar più attraenti dei loro fisici e gesti. Tye Sheridan ha la freschezza che ci porta la novità di un volto poco conosciuto e anche se affascina l’innocenza del suo amore per Atermis (Olivia Cooke) – il romanticismo nella posa finale del bacio è un aneto intenzionale a quei film muti persi nel ricordo del tempo – sembra ossessionato dalla sua versione avatar in poco più di due ore di puro intrattenimento. Questo, purtroppo, accade anche al resto dei personaggi di supporto di cui Aech/Helen (Lena Waithe) ha il merito di interessanti noi nella sua spensieratezza, e la truffa con il suo alter-ego virtuale ci fa passare gatto per lepre.
Questo film concede anche filmati eccessivi a un’avventura che raggiunge solo un maggiore interesse per i segmenti iniziale e intermedio; emozioni come soffrono le condizioni di chi raggiunge il traguardo senza fiato, dopo aver corso una maratona in corsa sfrenata. Mark Rylance, nel suo abbinamento con Spielberg dei titoli passati – Bridge of Spies, The BFG (2016)- è sicuramente il migliore in questo film in termini di character design, un remeath autobiografico con cui il suo regista lancia ancora una volta audaci (necessari) avvertimenti, ma ci racconta anche di una passione che rende questa storia un’allegoria del suo mondo interiore. Questa è l’ultima, a mio parere, la cosa più rilevante del film: il modo in cui ci mostra la nudità virtuale di un regista che è ancora in cima alla filmografia mondiale in questo momento. Di fronte a ciò, solo una genuinità è possibile, concedendo una licenza dagli occhi grassi a qualsiasi perdita e lasciando che quel fiume strapazzato di realtà e fantasia ci trascini e faccia le sue cose.
Settant’anni dopo una carriera coronata dal successo, Spielberg continua a dimostrare la sua buona forma in ogni puntata per darci lezioni accattivanti dal buon cinema. Ω

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