Manoscritto del cardinale Jaime Ortega Alamino

Manuscrito-Cardenal-Jaime-Ortega

“Tutto non è niente, solo Dio”

Manoscritto del cardinale Jaime Ortega Alamino

Precontestualizzazione del testo.

Ho scelto il titolo “Tutto non è nulla, solo Dio” per nominare questo manoscritto affidatomi dal Cardinale Jaime Ortega Alamino, perché erano le ultime parole che Sua Eminenza mi ha fatto riferimento al riguardo, e anche per quanto riguarda la sua vita. Tuttavia, poiché il Cardinale mi ha dato il manoscritto privatamente (e sigillato), e così è rimasto fino a dopo la sua morte, è necessario per me prima chiarire il contesto in cui è stato scritto, consegnato e conservato.

Erano in corsa alla fine di maggio 2017. Una mattina, come era consuetudine in lui quando non aveva altri impegni, dopo la colazione il cardinale Jaime Ortega andò a lavorare nel mio ufficio, che era anche suo, anche se Sua Eminenza non aveva la sua scrivania, ma lavorò su una sedia al tavolo della sala da pranzo che teneva permanentemente posto davanti alla mia. In questo modo, i nostri orari di lavoro sono stati necessariamente passati faccia a faccia, separati solo da una scrivania larga circa 1,5 metri e profonda circa 1 metro. (Tranne quando Sua Eminenza lavorava “da sola”, cosa che fece nella sua stanza).

Quella mattina il cardinale Jaime portò una busta sigillata con nastro adesivo, che mise sulla scrivania. Era una busta totalmente “vuota”, senza alcuna indicazione. Sono rimasto colpito dal dettaglio che non ho detto “Riservato”, né “Riservato”, né “Sotto segreto pontificio”, le uniche buste contenenti i suoi manoscritti (o altri documenti), che Sua Eminenza mi ha dato sigilli per aver trascrivere con estrema riserva (il cardinale Jaime Ortega non ha mai usato un computer), o che, dopo la sua lettura, li avrebbe archiviati in condizioni molto precise. Solo in questi casi il cardinale Jaime usò scotch tape per la profusione per sigillare i documenti; poi, quando me li consegnò, punterebbe la parola in questione (una di quelle di cui sopra) con il dito indice, e questo senza che egli articolasse alcuna parola (“le pareti hanno orecchie”, mi disse).

Tuttavia, quella mattina di maggio era diversa. Quando ho messo la busta sopra la scrivania, ha iniziato una conversazione che mi ha lasciato abbastanza confuso dato l’argomento a cui mi riferivo. È stata la prima a discuterne da vicino, almeno con me, da quando ho iniziato a servire come Segretario nel 2000. Quella mattina il Cardinale Jaime Ortega mi disse di questioni esistenziali ed escatologiche, ma non lo fece per tesi o riflessione, lo fece in prima persona, raccontandomi della vicinanza della sua stessa morte. Tra le altre cose mi disse che doveva “prepararsi per la sua partenza per la Casa del Padre”, “che c’erano cose in cui stava trattando che doveva mettere sullo sfondo …” e, dopo molto tempo, mi ha sottolineato che “ignorava il momento”, ma che “doveva guardare perché stava arrivando”.

La mia confusione aumentò man mano che quella conversazione atipica si svolgeva, specialmente perché Sua Eminenza, anche quando all’epoca aveva 80 anni, era in “ottima salute”, o almeno sembrava. (Ci vorrebbe ancora un anno per lui, nell’agosto 2018, per essere rilevato avere un cancro al fegato, di cui è morto undici mesi dopo, il 26 luglio 2019).

Alla fine della conversazione, che era piuttosto un monologo, prese la busta sigillata e, dandomela a mano, mi disse con un tono imperativo: “Prendila, tienila, ma tirala fuori da casa mia oggi” (Non sono ancora stato in grado di dipanare la sua fretta di tirarlo fuori da casa sua), poi, senza dirmi cosa conteneva la busta, ha aggiunto con un tono più rilassato: “Nelson, tienilo come se fosse una volontà , aprilo solo dopo la mia morte, poi fallo quello che vuoi: pubblicarlo, romperlo o bruciarlo. (Lo stesso giorno ho preso la busta fuori da casa sua.)

Per due anni non ne abbiamo più parlato fino alla fine di giugno 2019 quando il Cardinale Jaime, già nella fase finale della sua malattia, mi ha chiesto della “busta”. Ho risposto che l’avevo in casa mia. Annuì e con voce piuttosto debole mi disse: “Nelson, eccolo lì, tutto non è nulla, solo Dio, solo Dio…” Volevo chiedergli cosa volesse dire, perché a quel tempo non era ancora a conoscenza di ciò che conteneva la busta, ma le sue condizioni fisiche non gli permettevano più di avere una conversazione; così gli ho solo chiesto se voleva che lo portassi da lui. Dopo aver pronunciato un “No”, croccante e clamoroso, aggiunse: “Nelson, il Signore mi chiama”.

Quando il Cardinale è morto, non ho avuto il coraggio di aprirlo, almeno per tutta la durata dei suoi funerali. Il 29 luglio 2019, il giorno dopo la sua sepoltura, la mattina presto, ho preso la busta e, seduto sulla terrazza di casa mia, l’ho aperta e ho letto la scritta che conteneva. Erano riflessioni che Sua Eminenza aveva scritto in un Ritiro in cui, sentendo, in silenzio ed enigmaticamente, la vicinanza della sua morte, fece dal 19 al 25 aprile 2017 con i Padri Carmelitani nel Convento di San Juan de la Cruz, a Segovia, in Spagna; Convento fondato dallo stesso San Juan de la Cruz nel 1586, e in cui il Santo visse dal 1587 al 1591, la tomba dove sono custoditi i suoi resti. (Per specificare le date esatte del Ritiro e altri dettagli, ho dovuto fare riferimento alle e-mail scambiate all’epoca con i Padri Carmelitani.)

Il cardinale Jaime Ortega ha scritto il manoscritto il 23 aprile 2017, Giorno della Divina Misericordia quell’anno (come specificato nel testo) ed è, soprattutto, una riflessione che ha fatto sulla sua vita. Questo documento di 14 pagine, scritto molto fluentemente per il soggetto di cui si occupa, costituisce, più di una sorta di testamento spirituale (secondo il newtoniano “come se” che usasse quando lo consegnò nel 2017), la storia dell’anima del cardinale Jaime Ortega, che nudo su quei fogli dall’esperienza vissuta sui sentieri rocciosi di El Carmelo segoviano.

Pochi giorni dopo aver aperto la busta, ho informato l’arcivescovo Juan García Rodríguez, arcivescovo dell’Avana (creato cardinale della Chiesa il 5 ottobre 2019), dell’esistenza del manoscritto. Tuttavia, data la sua importanza testimoniale, ho deciso che sarebbero stati alcuni mesi per la sua pubblicazione (dopo la lettura da parte dell’Arcivescovo, al quale ne ho dato una copia a metà agosto 2019). Non volevo che questo manoscritto diventasse notiziario tabloid (tanto meno distruggerlo o farlo erba dalle fiamme), volevo che fosse letto con calma.

In questo modo, renderò pubblica la trascrizione completa del manoscritto, consapevole che, sebbene alcune persone saranno sorprese a trovare, e capire da esso, aspetti profondi dell’anima del Cardinale Jaime Ortega, non mancherà chi lo leggerà mosso solo dalla curiosità, alla ricerca di vari intringulis e vericuetos, senza perdere coloro che lo faranno cercando di ascoltare successive svelamenti (qualcosa che non troveranno , almeno in questo manoscritto).

D’altra parte, volevo essere fedele a un’antica frase latina: Verba volant, scripta manent (“Le parole volano, la scrittura rimane”), ma nel senso originale di essa, così travisata ai nostri giorni. Di conseguenza, non rendete pubblico il testo di questo manoscritto affinché “ciò che è scritto rimanga” (non è ancora il momento di farlo), ma che “voli la parola”, specialmente ora che il Cardinale Giacomo, al di là delle obnubilazioni, vede tutto com’è realmente, e non in modo confuso, come in uno specchio (cfr 1 Cor 13,12).

Dopo questo preambolo, necessario per conoscere il contesto, senza il quale il testo potrebbe essere indeterminato e senza tempo, do la parola al Cardinale Jaime Ortega Alamino.  Gli dico solo: “Eminenza, Pace, guardia volant.”

Dr. Nelson O. Crespo Roque

L’Avana, 14 gennaio 2020.

Manuscrito-Cardenal-Jaime-Ortega
Manuscrito original

Manuscrito-Cardenal-Jaime-Ortega

 

Trascrizione completa del manoscritto del cardinale Jaime Ortega Alamino.

Dallo spirito, dal centro dell’anima, provengono realtà liriche e mistiche (molto vicine l’una all’altra) da lì (dallo spirito, dal centro dell’anima), nella regione preconcettiva o sopraconcettiva dello spirito.

La scoperta di Gesù nella sua passione e allo stesso tempo la scoperta di me stesso nella lettura rapida (in un colpo solo) della mia vita è stata salvata dal nulla di assurdità, di anticonformismo, di paura, di tutto un colpo, senza parole, producendo Luce che ha illuminato tutto all’improvviso, e gioia di avere una spiegazione senza parole e di avermi scoperto.

In Gesù Cristo ho contemplato me stesso e niente di tutto ciò è spiegabile o variabile, anche se ci ho provato molte volte. È stata la Parola eterna che mi ha “parlato” senza parole e mi ha lasciato senza parole per comunicarla agli altri. Avevo trovato Gesù-Dio e mi sono ritrovato. È qui che inizia la storia della mia vita. Era molto vicino all’età di 15 anni. Battezzato all’età di 5 anni, non frequentò la Chiesa.  Quando avevo sette o otto anni andavo più volte a una catechesi in una parrocchia salesiana, l’ho trovata noiosa, il linguaggio “infantile” usato dal sacerdote in un giorno di re quando c’era una festa e i doni distribuiti mi sembravano falsi. Me ne sono andato. Non sono mai tornato.

Quando avevo 12 o 13 anni, andai alla Santa Sepoltura il Venerdì Santo. Stavo solo guardando.  Avevo insegnato le preghiere a una zia-nonna e le domande di memorie del Catechismo di “Pio X”. Sapevo tutto con l’automatismo della memoria, come le tabelline, ma non ho mai pregato, il dipinto del Sacro Cuore della sala di casa mia era un altro ornamento, tipico di tutte le case di Cuba. Sentivo la religione come qualcosa di lontano da me. Tutti dicevano che credevo in Dio, e anche io.  Ma Dio, la fede, la religione, erano fuori dall’orizzonte della mia vita.

All’età di tredici-quattordici anni, però, ho sperimentato che mi aprivo al mondo e che tutto era inspiegabile per me, per vivere, morire, scegliere una carriera, i festeggiamenti, tutto era estraneo a me, strano; dopo l’incontro con Cristo ho capito il significato di quella crisi esistenziale. È una cosa impegnativa per un essere intelligente vivere senza Dio.

I miei amici della Preuniversità, con i quali giocavo a pallavolo, erano cattolici. Sono stato invitato ad andare ad attività culturali-religiose nei locali sociali della Gioventù d’Azione Cattolica, ad esempio, a un Cinema-Club, a una conferenza. Non avevo mai frequentato, non ero mai entrato in quella casa che vedevo ogni giorno davanti all’Istituto mentre entravo e lasciavo la scuola.

Dopo quell'”incontro” ho anche riscoperto in un colpo solo i miei amici “come cattolici” e, senza alcun invito speciale ad alcuna attività culturale, mi sono presentato lì una notte, sentendomi stranamente parte di quel gruppo. Mi chiesero se avevo fatto la Prima Comunione e dissi di no, che ero solo battezzato. “Devi prepararti”, mi spiegano che ci sarebbe vuole un po’, che dovevo sapere cos’era la Confessione, ecc. Ero disponibile.

Qualche giorno dopo, quando lasciai l’Istituto, due o tre dei miei “nuovi amici cattolici” mi dissero: “Non hai una tassa sullo scapolare di Nostra Signora di Carmen?” Ho detto loro di no, e cos’era quello? Hanno aperto le loro camicie e mi hanno mostrato lo scapolare. L’avevo visto ad alcune persone, e mi hanno detto, “Vuoi imporlo a te adesso? È così che avrai la protezione della Madonna. (La Chiesa di Carmen si trova a un isolato dall’Istituto). Siamo andati, era la prima volta che entravo in quella chiesa di fronte alla quale passavo quattro o cinque volte al giorno. Ma ora c’era una Chiesa lì che era anche “nuova” per me. Intorno al 16 luglio mi ero fermato in un angolo per vedere la processione della Madonna e ho visto i miei amici con il braccialetto della Gioventù di Azione Cattolica sul braccio sinistro. Oggi mi hanno accompagnato e questo era il mio pensiero, mentre aspettavamo che il Padre scendesse: “Bene che la Chiesa dia qualcosa senza doversi preparare, imparare la dottrina e senza confessare”.

Mi inginocchiai nella Sacrestia, il Padre benedisse lo scapolare e me lo mise adiesca. I miei amici mi hanno presentato lui. Ed è stato lo scapolare di Nostra Signora di Carmen che ho ricevuto per la prima volta dalla Chiesa dopo il Battesimo. In quella chiesa ho fatto la mia Prima Comunione tre mesi dopo. Fu carmelitana, il mio primo confessore, padre Ignazio della Vergine di Carmen. Non ho smettereo di andare alla Messa di domenica dopo la mia comunione.

In quella chiesa, pochi mesi dopo, ho iniziato ad andare alla Messa ogni giorno e ogni pomeriggio ad una visita al Santissimo Sacramento. In quella Chiesa ho celebrato la mia prima messa.  Lì ho appreso di Sant’Elia, San Simone Stock, Santa Teresa di Gesù, San Giovanni della Croce, Santa Teresita del Bambino Gesù, il Bambino Gesù di Praga, la fama di santità di Suor Elisabetta della Trinità, la cui dottrina spirituale (presentata mirabilmente da padre Filippo), mi accompagnò dal mio primo anno del seminario, “Laudem Gloriae”.

Fu lì, nell’austero chiostro di Carmen de Matanzas, che il mio direttore spirituale, padre Cristóbal de la Virgen del Carmen, e dove tennero il dialogo con quell’uomo di Dio, che mi decise di fare il prete.

“Padre, mi sento chiamato alla vita religiosa e vorrei essere fratello di La Salle.” I fratelli lavoravano con i giovani. Non avevano una scuola a Matanzas, ma vennero come animatori dalla Gioventù Cattolica a Matanzas. Diversi membri del gruppo a cui apparteneva erano entrati nella Congregazione negli anni precedenti.

Con il mento appoggiato sul bastone, padre Cristoforo mi disse:

Chi ti ha detto che hai la vocazione di un fratello? No, non sei per un fratello. Conosci la gioia che darai al vescovo se andassi a dirgli che vuoi fare il prete?

– Padre, ma mi piace insegnare, fare l’insegnante.

– Questo è ciò che è necessario: sacerdoti che sono insegnanti, che insegnano al popolo e non fanno pezzi oratori.

– Padre, ma lavoro con i giovani che mi piacciono…

– Questo è ciò di cui abbiamo bisogno: sacerdoti che lavorino con la Gioventù e la attraggano alla Fede.

– Padre, ma solitudine… (Ebbe la testimonianza di sacerdoti che vivevano in barba sopra la Sacrestia, mentre visitava diversi popoli come membro dell’Azione Cattolica).

– C’è solo uno che vuole stare da solo, ha detto il Padre.

Lapidari, brevi, vibranti di realismo, con ecclesialità trasparente, sono state le sue risposte. E mi ha detto di pensarci. Gli ho promesso che l’avrei fatto. Circa un mese, poi mi sono fermato a vederlo per dirgli che stava andando al Vescovato per parlare con il mio Vescovo.

Il Carmelo teresiano, dopo la luce accecante del primo incontro, è stato il mio lazarillo. E ora qui, nel frutteto di San Juan de la Cruz, vicino alla Fortezza dell’Alcazar, al muro grigio e alla bellissima natura di aprile, dove lo Sposo al passaggio ha lasciato il suo sigillo, penso che rimarrà il mio Lazarillo, perché è notte, e devo prepararmi (questa volta presto e necessariamente) ad aprire gli occhi sulla fiamma eterna. Poi non più cieco, così come la prima volta, come Paolo, ma sarà reso giorno senza tramonto.

A San Juan de la Cruz affido quest’ultimo tratto della mia vita. Ho così tanto da andarmene, Dio mi ha dato tanto, forse a causa della mia fragilità il Signore ha avuto una Provvidenza di continuo ringraziamento per tutta la vita. Mia madre mi diceva: “Sei fortunato, tutto funziona per te.” Anche nelle cose minori, nei piccoli progetti o nelle grandi opere, la mano di Dio è sempre lì. Ho imparato a vederla. A volte quelli intorno a me ammirano come “le cose escono”. E ho paura di pensare al dolore, alla sofferenza.

D’altra parte, se potessi pensare oggettivamente a me stesso, come se guardando dentro di me dall’esterno, ho sofferto molte, intime, sofferenze esistenziali. Un uomo più anziano, di cui tengo la lettera, essendo un giovane Arcivescovo, scrisse al Superiore Religioso delle Suore d’Amore di Dio che mi accompagnò come Arcivescovo dell’Avana. Potrei quindi aver avuto circa 50 anni, forse 80, e fatto come uno studio entusiasta di me, del mio ministero, della mia predicazione, dell’amore che, secondo lui, i fedeli provavano per me e la loro ammirazione per la mia persona.

Fa questa riflessione: “È un uomo che dovrebbe sentirsi felice, ma non lo è, quando benedice quando esce dalla Messa ha sempre un sorriso triste che mi dice, ha detto, che non è pienamente felice”. Mia sorella mi ha portato la lettera. Ho fatto un commento banale, ma sono rimasto scioccato, perché la sua frase testuale era: “c’è qualcosa al suo interno che non lo rende felice”. Mi ha ricordato un mio cugino, la nipote di mia madre, la mia età, che essendo entrambi adolescenti, quando sono arrivato mi ha detto, “Cos’è successo che non sei venuto per il mio compleanno? Ho detto, ha aggiunto, “Il sorriso tristone di Jaime manca qui.”

Sì, la fede mi ha innalzato al di sopra di queste sofferenze interiori, e il Signore ha voluto compensare con continui e delicati dettagli ciò che potrebbe essere doloroso, perché mi abbia fatto sentire che nulla di ciò che ho sofferto alla luce della sua passione, che non ne ho condiviso nulla. Quando mi parlano dei mesi che ho trascorso nel lavoro forzato, delle difficoltà del cibo, dei trasporti e dell’abbigliamento, dei difficili anni di lavoro pastorale nelle parrocchie nelle campagne, niente di tutto ciò mi sembra straordinario e temo di non essere nemmeno lontanamente attaccato alla passione del Signore. Così è la mia anima che ho messo sotto la guida di San Giovanni della Croce.

Sono sempre stato scioccato nel leggere le sue suppliche al Signore di dargli sofferenza, compresa la sofferenza spirituale come disprezzo, calunnia, offese, ecc.

E ricordo quasi ogni giorno un pio e buon vescovo ausiliare con una grande anima. Gli ho ordinato un prete e l’ho ordinato vescovo. Era un’assistente della mia diocesi. Mi diceva sempre, quando arrivò il tempo della Quaresima: “Non prego mai quell’inno dei Vespri che dice al Signore: ‘Non cerco corone di gloria. Se mi dai una corona, darlo a me con le spine.

Egli aggiunse: “Il massimo che posso dire al Signore è: Che io accetti le sofferenze che vengono!”

Morì all’età di 54 anni, fu un’operazione di cancro al colon che dovette essere eseguita rapidamente, poiché non si era manifestata. Sono venuto dall’estero e sono andato al letto di morte in ospedale. Sono stata una delle ultime persone a vederlo e parlargli. Sono state solo poche parole. Dissi: “Offri tutto per la Chiesa”. Con un sorriso pieno e facendo un gesto con la mano non compromessa dal siero, mi disse chiaramente e lentamente: “Ho offerto tutto”.

Penso che fosse un’anima scelta e anche che aspirasse e potesse arrivarci.

Chiedo a San Giovanni della Croce che almeno io possa venire a questo, perché “il mio triste sorriso” diventi radioso nell’eterna contemplazione del Marito.

Eppure sono pieno di progetti, sono sempre stato così e ho pensato che il mio ritiro sarebbe stato come quello di Papa Benedetto e che mi ha rattristato, ho “ancora”, pensato dentro di me, non ho raggiunto quella capacità di pregare per la Chiesa e lasciare un altro progetto tutto, penso ad altri santi, San Giovanni Bosco, o sacerdoti che tra noi (uno ha 96 anni) sono ancora attivi. Ho vissuto tutto questo con preoccupazione.

Penso che il percorso finale verso la Luce sia diverso per tutti. Ricordo la Nona Sinfonia di Beethoven, già senza sentire, alla fine della sua vita la compose. Sono preoccupato di interferire, di essere l’ombra del mio successore. Dicono di no, ex collaboratori, che sto andando bene. Ma i riferimenti del Corpo Diplomatico e persino del governo sono per me. Il Santo Padre mi disse: “Jaime, fai tutto il possibile, ma riposati anche tu”. Frequento una parrocchia popolare, piccola, povera, lo faccio con piacere.

Si sta creazione una Fondazione che porta il mio nome “Cardenal Jaime Ortega”, perché per motivi giuridici e pratici era opportuno che fosse così e io sono il primo presidente di quella Fondazione. Ma tutto ciò che viene intrapreso alla mia età ha il sigillo della precarietà. Per quanto tempo posso durare, come verrà mantenuta la mia salute? La paura di “perdere la testa” mi accusa più della morte.

Cerco questo cammino di preparazione e di offerta necessaria per andare al Signore e tuttavia, coinvolto in diversi progetti, penso allo stesso tempo che questo sia stato lo stile della mia vita in cui Dio ha mostrato continuamente il suo benefattore Provvidenza, vuoi che lo segua in questo nuovo ritmo imposto dalla mia condizione attuale? Ma questa passeggiata deve necessariamente diminuire. Mi mancherà l’accettazione? Conoscerò i segni del Signore? Avrei la forza di accettare, non il ritiro dell’Arcidiocesi, che grazie a Dio ho potuto accettare, ma la modifica del mio percorso esistenziale per proiettarmi più serenamente al mio scopo ultimo, o per mantenere il tonico del lavoro, come fanno tanti anziani, non tenendo conto della precarietà ed essendo disponibile ai tempi di Dio?

Vorrei che questi giorni di preghiera mi desse luce su questa Via.

Nelle mani della Vergine Madre di Dio, e con l’intercessione e l’accompagnamento di San Giovanni della Croce, metto tutte le mie missioni, perché allo stesso tempo sono consapevole dal momento del mio ritiro, un anno fa, che queste “attività” possono essere come un riempimento con il “divertimento” da portare a termine così fino alla morte, e non voglio che sia così. Devo riorientare tutto per andare alla Luce. Quella era la fine di questi giorni (ritiro) e penso che mi sta aiutando a farlo. Fin dal primo momento mi sono reso conto che “è una questione d’amore” e ho sentito qualcosa di simile alla desolazione al crepuscolo il primo giorno per “non saper amare”, per non aver sempre accettato il ruolo centrale dell’amore nella vita spirituale, forse per la mancanza di “formazione” nelle relazioni interpersonali da bambino e da adolescente, anche per la guida spirituale dell’Azione Cattolica , in com’è amare gli altri.

Sono sempre stato “troppo” amato e non volevo amare gli altri, e quando l’ho fatto è stato con amore possessivo. Questo mi ha danneggiato e potrebbe essere la causa (penso di sì) del mio triste sorriso.

Questa è la storia (la storia dell’anima). L’altro, parroco, a partire da vicario cooperativo a 27 anni, 8 mesi in un campo di lavoro, brevi periodi in varie parrocchie in campagna per 5 anni, 9 anni parroco della Cattedrale della mia Diocesi, vescovo all’età di 42 anni a Pinar del Río, arcivescovo dell’Avana a 45 anni, cardinale della Chiesa a 58 anni , in pensione a 80 anni.

Questa è la storia piena di lodi da parte di alcuni e aspre critiche da parte di altri. In questa storia Cristo Gesù è diventato particolarmente buono e misericordioso per me. Mi ha aiutato a portare la Croce delle critiche, degli aspri attacchi e delle incomprensioni dei miei fratelli cubani che vivono all’estero. Dei fedeli a Cuba ho provato vicinanza, affetto, ammirazione, gratitudine. Questo compensa le sofferenze di cui sopra, ma sono ancora molto tristi e difficili da sopportare, perché penso alla Chiesa che è sfidata, anche nel Santo Padre. La visita di ogni Papa a Cuba è stata un’occasione per attaccarlo. Queste sofferenze e confortamenti nello sviluppo del mio ministero non costituiscono l’asse della mia riflessione. Sono solo brutti, bei ricordi.

La storia delle profondità dell’anima, dove Dio è, è quella che mi ha portato qui. I ricordi della mia vita pastorale, buoni e cattivi, sono stati piuttosto in mezzo.  Mentre attraversavo il corridoio (il chiostro) ho visto la rivista ORAR con Santa Elisabetta della Trinità e la frase di Gesù a Zacchro: “Vieni giù, che oggi resterò a casa tua” ha indicato la strada per mano della mia cara Sorella Elisabetta: fino a che punto dovrei scendere? Nel profondo del cuore, nel profondo della mia interiorità: lì ho “trovato” Dio, perché ecco lo è.

Ed è qui che vorrei stabilirmi, immobile, alla ricerca di modi per far passare alcuni impegni episcopali “post-pensionamento” agli altri e portare il mio ministero, occupandomi di una piccola parrocchia “da quel centro di amore vivo”, con semplici progetti di evangelizzazione e semina dell’amore, perché arricchisca (come noto che sta già facendo) il mio cuore sacerdotale, perché i poveri, i malati, ci evangelizzano , dicci “di quell’amore” di cui è una questione sulla via della Luce. Questo ritrovare il mio sacerdozio nella sua semplicità e grandezza originali mi aiuta ad andare in profondità in me stesso.

Perché c’è il dono del carattere sacerdotale che è già inseparabile in me io interiore. Ora non sono il ragazzo di 15 anni che si è visto in Cristo, ora devo vedermi in Cristo sacerdote eterno. La tavola nella mia casa interiore dove devo scendere è la tavola eucaristica. In esso devo nutrirmi per affrontare e superare le lodi future immediate e le successive critiche.

“Perché hai messo un tavolo davanti a me di fronte ai miei nemici.” E lode e critica sono nemici uguali dell’anima. Non lasciare che queste ombre macchiano la luce in questi giorni. San Giovanni della Croce, pregate per me. Non lasciarmi impigliare nei miei difetti, peccati o disagio psicologico.

Oggi è la Domenica della Misericordia, e lo stesso Gesù che è venuto da me nel lutto, passo dignitoso, rivelandomi l’uomo che Dio vuole da ogni uomo e sollevandomi dalla mia prostrazione mi ha riempito di gioia, viene oggi dopo tanti anni di cammino e trasfigurato, risorto, mi dice: “Guarda, le mie piaghe ti hanno guarito più e più volte, sono stato con te per questi lunghi anni. Sono la ragione della tua perseveranza, non arretto mai il lavoro delle mie mani. Non è che tu sia gentile, io sono quello che ama e comprende e sostiene sempre con il trionfo pasquale della Misericordia, io sono quello che ti rende gentile”.

Grazie, mio Gesù, la mia roccia, il mio alcazar, il mio liberatore, il rifugio dove sono al sicuro. “Ricordate il ritiro precedente: voi non siete il centro, è Gesù, non guardate a voi, ma a Lui. Guarda, puoi andare in fondo da te solo per cercarlo che è lì. Grazie, San Giovanni della Croce, per questa precisione pacifica. L’abissale non è la nostra miseria, l’abissale è Dio che ci rende una nuova creatura.

“PACE a voi” è la vostra Parola oggi, seconda domenica di Pasqua. Dammi la tua pace, Signore.

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