Juan Quinquin compie 50 anni

Fotograma de la película.

Storici, critici, teorici e pubblico hanno acconsentito a chiamare “i quattro classici del cinema cubano”, una serie di lungometraggi che hanno già mezzo secolo. Le avventure di Juan Quin Quin (1967), Memoirs of underdevelopment (1968), Lucia (1968) e The First Burden on the Machete (1969) portano quell’alloro. Di questi, il primo è stato il più alto incarsio della nostra industria cinematografica; il secondo, probabilmente il più studiato; il terzo, molto citato dagli accademici, mentre quest’ultimo è stato il più pretenzioso in quegli stessi aspetti.
Il cinema è intrattenimento, e mentre sembra una verità incondistinbile, la verità è che ognuno ha il proprio modo personale di considerare ciò che è divertente o meno, poiché ogni tempo storico ha il suo standard per misurarlo. Ci sono film che oggi ci sembrano estremamente vecchi, perché i modi di raccontare, interpretare o risolvere aspetti concettuali o formali sono stati rinnovati da nuovi criteri tecnologici, stilistici o narrativi. Cioè, la necessaria dialettica tra contenuto e forma ha subito variazioni tali da non riconoscere più la storia e il conflitto narrati in questi film come fenomeni concorrenti, reali, possibili o credibili come riguardano l’umanità; o così, come dice Jean Baudrillard “nella misura in cui la tecnica cinematografica e l’efficienza dominano, l’illusione se ne va.”1 Indiana Jones sta invecchiando, cosa dire di Tom Mix e Douglas Fairbanks! È chiaro che la comunicazione raggiunta tra l’opera d’arte e il pubblico ha segnato il successo di Juan Quin Quin. Più di tre milioni e mezzo di spettatori sono venuti al cinema per vedere questo “gioiello” cinematografico. Ma quello che stava cercando, e che cosa ha fatto il pubblico di quel tempo vedere in un titolo così rinomato

Juan Quinquin

Diretto da Julio García-Espinosa, e pubblicato il 12 febbraio 1968, Aventuras di Juan Quin Quin è ispirato all’omonimo romanzo di Samuel Feijóo Juan Quinquín in Pueblo Mocho. La direzione della fotografia è stata effettuata da Jorge Haydu, che è quasi riuscito a trasformare il paesaggio rurale e semi-montuoso della regione centrale di Cuba in uno scenario di recitazione, mentre il occidentale predica. Leo Brower era incaricato di comporre la musica, senza il cui virtuosismo sarebbe stato impossibile mascherare le aritmie che si verificano nei momenti in cui l’azione doveva essere frenetica; mentre gli artisti in prima linea sono Julito Martínez, Erdwin Fernández ed Enrique Santiesteban, in ruoli che non implicavano una particolare dimostrazione di abilità istrionica. Santiesteban, ad esempio, non va dall’essere il Tuero Plutarco di San Nicolás del Peladero.
Julio García-Espinosa, fondatore dell’ICAIC, si era di spiccato fin dalla sua giovinezza per il suo lavoro in teatro e radio. Nei primi anni ’50 si recheì in Italia per studiare per tre anni presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Al suo ritorno entrò a far parte della Our Time Cultural Society, l’avanguardia intellettuale dell’epoca, e nel 1955 diresse El Mégano, un documentario di denuncia sociale e un importante precedente della nostra cinematografia prerivoluzionale. Si distingue anche come teorico con articoli e saggi interessanti, il più famoso dei quali per il cinema imperfetto, contiene le basi della sua concezione moderna del cinema e costituisce una riflessione ispirata al film che aveva girato due anni prima, Adventures of Juan Quin Quin. Il nastro controverso agli occhi dei critici suggerì un percorso sperimentale, secondo il suo autore; ma nella cui lettura più lineare, il pubblico sembrava trovare almeno un’eco della loro avidità per il cinema di intrattenimento.
Il cinema di genere (avventura, polizia, western, commedia, ecc.) funziona come una strategia di business cinematografico, che suddivide e classifica il pubblico, per manipolarlo con facilità, offrendo loro il tipo di prodotto di intrattenimento per il quale sono stati pazientemente modellati. Il cinema prodotto da questa industria culturale sopravvive a un infinito riciclo delle sue formule, con una certa vernice etica, sotto la quale si nasconde il suo vero potenziale ideologico. I precetti fondanti dell’ICAIC erano ben lungi dal considerare tale cinema come un riferimento accettabile per l’incombente cinematografia cubana. Tuttavia, García-Espinosa rischiò tutto nel suo tentativo di “cercare il cinema all’interno di quel cinema. Non c’era bisogno di fare un altro cinema, ma cercare quello nuovo nel confronto con il vecchio cinema […] Accettare e rifiutare […] Come in tutti i veri scontri, dove ci si assimila contemporaneamente come nega.”2
Tuttavia, siamo d’accordo con Ambrosio Fornet quando si riferisce agli effetti di stima utilizzati nel film afferma: “Naturalmente una cosa è proteggere lo spettatore mostrandogli che non esiste un linguaggio neutro o innocente, e uno molto diverso per vincerlo per la causa stessa usando un linguaggio colpevole, ma con un segno ideologico inverso. In Juan Quin Quin questa mutazione non si è verificata organicamente.”3

John, Jachero, Teresa e un cattivo
Attraverso una pianura boscosa incombe una truppa di cavalieri, da cui un uomo viene immediatamente galoppato via. Congelato nell’immagine è l’eroe sulla sua cavalcata. Quello è Juan Quin Quin e questa è la sua storia. Così viene presentato nelle prime riprese del film, in modo che lo spettatore sappia che c’è un individuo, che emerge dalla messa, potenziato su di esso, modello unico, superiore, ideale (patriarcale?) per l’ancoraggio soddisfatto dello sguardo maschile. John è più o meno il duro, il galante, il cowboy; si manifesta in diversi avatar: chierichetto, torero, cirquero, bracciante diurno, guerrigliero…

È stato detto che Adventures of Juan Quin Quin attinge al romanzo picaresca, al cinema d’avventura, alla satira e persino al volgare. Tuttavia, per me John è tutt’altro che un ladro, la sua caratterizzazione è tra lo del popolo e il ragazzo spericolato. Il tuo partner, Jachero, è un ragazzo minorenne; manca il garbo e l’audacia del protagonista; ma è il compagno di esperienze che lo aiuteranno a guardare meglio la sua cortesia e il suo coraggio. È il Sancho senza Panza, che non cresce all’ombra del ragazzo duro, ma che funge da leva di Archimede. È un personaggio insipido e contrappunto, senza il carisma necessario per accendere la scintilla della comicità che ci si dovrebbe aspettare da lui. La sua storia d’amore con una giovane contadina è inspiegabilmente troncata, in uno dei momenti di sfogo brechtiano che attraversano il film: Jachero appare impiccato dalla guardia rurale; dopo averlo visto, la ragazza fugge verso il paese di fondo e viene colpito dal sergente; si sente il grido di Giovanni “Teresaaa”; taglio, e siamo già in un altro momento del film, da cui né Jachero è morto, né si sa nulla del contadino.
In terzo luogo, abbiamo Teresa (Adelaide Raymat), l’oggetto dell’amore dell’eroe, motivazione indiscussa. Teresa riesce a malapena a superare il modello femminile tropicale proposto dal film. È una guajira robusta, tra trigueña e mestiza, i cui incontri con Giovanni confinano con il recato assoluto. Il nudo di Teresa, suggerito nel fiume, viene amputato e sigillato dal giocattolo puerile in cui rimane impigliato con Giovanni, fuori dall’acqua e vestito di nuovo. Al contrario, la storia invia in diverse scene due donne di corpi scandalosamente belli, un superbo mulatto e una splendida bionda – quasi a coprire un arco di preferenze maschili – cirqueras semi-nude e irriducibile che hanno fatto un passo oltre la puttana del villaggio (a cui il sacerdote tiene costantemente lezioni). La condizione polarizzata ed esclusione di donne, vergini o puttane, ribadita da Hollywood, come parte della loro ideologia sessista, è ripresa nel film cubano, aggiungendo la frase biblica come un mero umorismo cattivo; pertanto, mentre Teresa e Giovanni commentano la loro tenera e dempatica storia d’amore sotto un palmo, l’impronta del serpente è disegnata sul tronco.
Infine, vediamo il cattivo (Enrique Santiesteban), quarto elemento midollare ed essenziale per la storia per avere un senso e coinvolgere il destinatario. L’attore si sviluppa in diversi personaggi: il sindaco, la procura e il direttore della sede. Nel suo ruolo di antagonista accompagna l’eroe nel suo viaggio, ingerendo vari ostacoli che innescano i viaggi e il trionfo finale del bene sul male.
Il cattivo nel film, come si dice comunemente, è nato nel cinema americano come traduzione della letteratura. Il cattivo è una figura chiave nell’Ovest americano, dove di solito gioca in un delinquente pagato, un cowboy vingeful o uno sceriffo infido. Nel cinema cubano viene dato attraverso coloro che rappresentano gli stati di potere durante il periodo repubblicano prima del 1959: latifundistas, soldati, ufficiali, guardie rurali, torturatori, sindaci, consiglieri, politiqueros in generale o membri dell’oligarchia borghese. Per il cattivo di Juan Quin Quin, lo troveremo poi replicato in uno stereotipo imbattibile, Don Francisco Gavilán di El elefante y la bicicleta (Juan Carlos Tabío, 1994), interpretato da Raúl Pomares.
Sembra ovvio che García-Espinosa volesse fare un film la cui confezione ha la maggiore somiglianza con il cinema da cowboy, purché il suo contenuto fosse puramente nazionale. Ma ogni parodia tende a legittimare il suo riferimento, quindi, per lo spettatore di quel tempo, Juan Quin Quin era la cosa più vicina a un emozionante film western, con l’aggiunta di ritrarre un passaggio della storia recente dal sapore creolo senza pari.
Si verificano situazioni episodiche, seguendo lo schema naturale associato al genere a cui si allude: il triachet sulla recinzione del gallo ha sostituito la congrega propria della taverna o del salone; mentre la corrida e l’assalto alla caserma omologavano l’assalto alla stazione postale o alla banca, un tipico evento del western più puro. John fugge attraverso una finestra saltando così dorato sul suo cavallo. Un paio di scene in seguito ordinarono a Teresa di saltare giù dal tetto e lei cade tra le braccia di una guardia rurale che ovviamente la salva dalla separazione, almeno una caviglia. La ricerca dell’ingegno da parte di Giovanni culmina con un piccolo e elaborato ma ovvio salvataggio dell’ultimo minuto, una risorsa drammatica che si ripete con uguale inefficienza nel salvataggio di Teresa. David Griffith, che è stato un maestro in questo tipo di sequenza, ha lasciato in lasciato la storia del cinema e i modelli del linguaggio cinematografico di quella drammatica action figure, che è stata sfruttata efficacemente all’infinito anche nel cinema d’animazione, e di cui García-Espinosa avrebbe potuto approfittare per sollevare l’impatto emotivo della sequenza. Poi è bastato chiudere – come accade – con l’ultimo dialogo tra Teresa e Giovanni, prima che l’eroe solitario partisse con la sua truppa nell’entroterra, come un colofono della storia

Alcuni interessanti saggi cinematografici su come utilizzare strutture drammaturgiche o risorse stilistiche tipiche del cinema di genere per raccontare storie indigene, hanno dimostrato che può essere fatto con un equilibrio positivo: lo strano caso di Rachel K (Oscar Valdés), El hombre de Maisinicú (Manuel Pérez), Clandestinos (Fernando Pérez), se intendiamo per equilibrio positivo non solo conquistare il pubblico e fare botteghino, ma anche dare il chiarimento in termini di qualche novità. Le avventure di John Quin Quin ci riuscirono all’epoca, prendendo come valuta che “ci poteva essere più arte in un cortometraggio immaginario girato nelle strade frenetiche di qualsiasi nostro paese, che nel film immaginario con la tecnologia più finita, con il conto più finito che si potesse immaginare.”4
Fingere di giudicare il film oggi nel calore dei nuovi tempi può essere una buona ragione per rivederlo, studiarlo, goderlo, non lasciarlo morire; sapendo che pochissime, pochissime opere d’arte cinematografica, sono in grado di sfidare il passare del tempo. Ω

Note
1Jean Baudrillard: Illusione estetica e delusione, in https://cinedocumentalyetnologia.files.wordpress.com/2013/09/duelo.pdf.
2 Juan A. García Borrero: Critical Guide to Cuban Fiction Cinema, Havana, Ed. Art and Literature, 2001, p. 65.
3 Ambrosio Fornet: The Traps of the Trade, L’Avana, Edizioni ICAIC, 2007, p. 49.
4 Juan A. García Borrero: ob.cit., p. 66.

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