Parla con il clero dell’Avana-2021

Di: P. Manuel Uña Fernández, O.P.

clero habanero
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“Missione del sacerdote in una Cuba mutevole e complessa”

 

“La missione non è ciò che facciamo, la missione è ciò che siamo”.

(Gerald Timoner III, Maestro dell’Ordine dei Predicatori).

 

Abbiamo San Giovanni Maria Vianney presente ai suoi tempi, Santa Caterina, per essere dove siamo, e mi affido all’intercessione di San Giovanni XXIII che ci ha detto che Dio gli aveva concesso la grazia di rendere facile ciò che era difficile, affinché aiutami a presentare questo discorso con un argomento dai tanti bordi, in modo semplice.

Cari sacerdoti: con voi e come voi sto vivendo quest’ultima tappa della mia vita sacerdotale, al servizio del nostro popolo cubano.

Monsignor Juan, il nostro caro parroco, mi ha sorpreso l’altro pomeriggio con una richiesta: condividere con voi qual è la missione del sacerdote, in quest’ora che stiamo vivendo.

Apprezzo molto la fiducia che mi dimostrate nel chiedermi di parlarvi di un argomento che non mi è né facile né comodo: è vero che da 28 anni condivido con voi la stessa sorte, vedendo, conoscendo e vivendo la realtà , cruda realtà, di tutti i giorni. Ma, essendo straniero, mi sembra che sto osando e sto profanando qualcosa di così sacro, come i sentimenti di voi che siete nati qui, siete bambini di qui, avete sofferto quello che so solo per sentito dire, ma ho non l’ha subito. Mi sento un teorico.

 

clero
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Oso ricordare il passato con voi, non per desiderio ma con profonda gratitudine: mi sento fortunato ad aver visitato Cuba per otto anni prima del mio arrivo finale il 15 ottobre 1993, nel bel mezzo del Periodo Speciale, per incontrare persone e fratelli e sorelle, che erano veri testimoni, avevano ben poco ma erano molto felici. In quei tempi ho anche sentito la chiamata a cambiare un mondo per l’altro, anch’io mi sento di entrambi i mondi come padre Bartolomé, è venuto dalla sobria Castiglia in un paese pieno di vita. Qui, P. José Manuel Fernández (Padre Pepe) e P. Domingo Romero mi hanno fatto un grande dono: il dono della loro vita semplice, coerente, dedicata. La solitudine del Laterano mi colpì, era solo ovattata ogni pomeriggio perché un altro testimone arrivava con puntuale fedeltà: il gesuita padre Luis Peláez, e li contemplava seduti nelle vecchie poltrone della galleria. Un giorno hanno condiviso con me qualcosa di inaspettato: la vigilia di Natale, i gesuiti di Villa San José li hanno invitati a condividere con loro, la vigilia di Natale celebrata dai domenicani con i gesuiti, i gesuiti con i domenicani è stata unica.

E, nel 1996, ho conosciuto un giovane di 16 anni che voleva fare il frate predicatore quasi dal giorno del suo battesimo, questo giovane pieno di gioia oggi è anche frate predicatore ed è il Rettore del p. Centro Bartolomé de las Casas, il suo nome è lester. Così, le generazioni di ieri e di oggi si uniscono e si stringono la mano. Perdonami, Lester, ma sono così felice di potertelo dire adesso.

Vorrei che le mie parole non fossero fredde, vi parlerò in modo semplice e forse condizionato da una visione molto particolare, dall’alto dei miei 86 anni (ricordo che Mons. Siro non amava troppo la frase: “Ogni volta in passato era migliore”, preferendo quella di sant’Agostino: “Ogni tempo ha il suo carico di bontà, preoccupazioni e problemi”).

1.- San Tommaso d’Aquino, uno dei consigli che diede al suo discepolo Juan fu il seguente: “Cerca sempre di entrare nel mare dal fiume”. E nel fiume del mio passato è vivo il ricordo di due realtà che mi gratificano molto. Qui, nella nostra Cuba, ho incontrato persone che mi hanno dato fiducia e si sono affidate a me; senza differenza di credi e ideologie. Fin dall’inizio, quando abbiamo aperto l’Aula e il Centro P. Bartolomé, il nostro desiderio è stato quello di integrare e non escludere.

2.- Tengo presente le espressioni latine della scolastica, quando designa i due termini fondamentali di ogni rapporto umano: I termini A QUO E AD QUEM.

A QUO, è sempre il punto di partenza, l’origine… Per noi, il termine A QUO è il momento che stiamo vivendo: l’oggi, il qui e ora, la sofferenza di tante persone che soffrono con rassegnazione le loro deficienze e privazioni, le file interminabili… finché un giorno sono scesi in piazza e abbiamo potuto vedere scene violente e tristi tra bambini della stessa città.

La nostra storia è già segnata da due 11. Per anni abbiamo vissuto all’ombra dell’11 settembre, e questo non solo perché è stata una tragedia ma perché è un simbolo del mondo in cui viviamo. L’11 settembre simboleggia il giorno della violenza nascosta e calcolata. Quel giorno la violenza nascosta della nostra cultura mondiale è diventata visibile, la comunità umana è rotta da un’escalation delle disuguaglianze.

Nella nostra Cuba, un altro 11 luglio, sarà una data indimenticabile che segna un prima e un dopo. Non è più lo stesso, perché qualcosa è emerso senza aspettarselo: una violenza impensabile.

A Cuba si è aperto un nuovo capitolo. È un capitolo senza alcuna promessa, se non la minaccia dell’intolleranza.

E il termine AD QUEM ci rimanda alla meta, dove vogliamo arrivare… Dopo questo 11J, in questo momento, cosa può offrire la Chiesa? Abbiamo buone notizie da condividere?

3.- La gerarchia, i sacerdoti ei laici hanno un compito. Essere pastori e uomini di speranza nei momenti di disperazione, come Abramo (Rm 4,18-21), che per questo non ha vacillato nella sua fede. Una speranza vera è pronta a dare ragioni, perché una speranza senza ragioni è una pura illusione che porta alla delusione e alla disperazione.

Mi pongo la seguente domanda: siamo pronti a motivare in tempi di disperazione?

Mi riferirò alle tre crisi che colpiscono la vita del nostro popolo cubano e, quindi, il nostro lavoro di pastori.

In primo luogo, la crisi globale del COVID-19, i cui spazi più significativi risiedono nel sistema sanitario e nella morte di tanti familiari e amici, aggravata dalla carenza di medicinali e mezzi.
In secondo luogo, la crisi economica, aggravata dal compito di riorganizzazione monetaria che ha provocato l’aumento dei prezzi di mercato, l’aumento della povertà e la mancanza di risorse minime nella vita delle famiglie.
E in terzo luogo, la crisi politica, che dopo gli eventi dell’11 luglio ha generato una situazione conflittuale tra i cubani, manifestando allo stesso tempo i desideri più profondi dei cittadini che chiedono un cambiamento sociale. Ovviamente non tutti la pensiamo allo stesso modo.

4.- Noi sacerdoti abbiamo un compito importante in questa Cuba mutevole e complessa.

Il profeta Geremia menziona un oracolo con la promessa di Dio al suo popolo.

a.- “Vi darò pastori secondo il mio cuore” (Ger 3, 15). Con queste parole del profeta Geremia, Dio promette al suo popolo di non lasciarlo mai privo dei pastori che lo radunano, lo guidano e lo difendono.

“Metterò davanti a loro dei pastori che li nutriranno e non avranno più paura né paura” (Ger 23, 4).

Essere consapevoli di essere pastori è assumere la nostra identità sacerdotale, è tornare alla fonte del nostro ministero. Nelle nostre mani è il compito di curare, accompagnare, guidare, proteggere e difendere la vita dei nostri fedeli laici e delle persone di buona volontà che cercano Dio.

b.- “Pastori che consolano la sofferenza del mio popolo” (Is 40,11): Il conforto è definito come la capacità umana di accompagnare il dolore e la sofferenza in situazioni di disperazione, afflizione e tristezza. La Chiesa a Cuba ha bisogno di ministri di conforto e compassione.

Per consolare affettivamente occorre essere buoni samaritani capaci di alzarsi, discendere, avvicinarsi per conoscere la situazione dell’altro, ci sono sofferenze altrui che diventano proprie, come dice san Gregorio Magno: «Solo chi condivide la sofferenza può comprendere la sorte di chi soffre e per lo stesso consolarlo”.

c.- Nel trattare con gli uomini, nella vita di tutti i giorni, il sacerdote deve avere una sensibilità umana per comprendere i loro bisogni e accogliere le richieste, includere le domande inespresse, condividere le speranze, le gioie e il lavoro della vita ordinaria e poter incontrare tutti, accompagnando il dolore nelle sue molteplici manifestazioni dall’indifferenza alla malattia, dall’emarginazione all’ignoranza, alla povertà materiale… Per essere divini bisogna cominciare ad essere umani.

Qualcuno ha scritto che: “La calcificazione del cuore è una disgrazia per il sacerdote” (Juan Ma. Uriarte, Una Sensibilidad Sacerdotal, Ed. Sal Terrae).

5.- Hanno parlato della nostra situazione:

a.- I nostri Pastori, ai quali corrisponde in primo luogo la missione di mediazione e di dialogo ad alti livelli: “A una soluzione favorevole non si giungerà con imposizioni, né invocando il confronto, ma quando si esercita l’ascolto reciproco, essi cercano il comune si prendono accordi e passi concreti e tangibili che contribuiscano, con il contributo di tutti i cubani, senza esclusione, a costruire la “patria di tutti e per il bene di tutti”.

La violenza genera violenza, l’aggressività di oggi apre altre ferite e aumenta i risentimenti per il domani che richiederà molto lavoro per essere superati (…)

Invitiamo tutti con serenità di spirito e buona volontà, ad esercitare l’ascolto, la comprensione e un atteggiamento di rispetto verso l’altro, a cercare insieme una soluzione adeguata.

b.- La Vita Consacrata, in comunione con il messaggio importante e ispiratore dei nostri Vescovi, il 12 luglio, ci ha detto: “Come consacrati viviamo questi eventi dalla fede e riconosciamo anche in queste rivendicazioni del popolo la voce di Dio . Quelli che sono scesi in piazza non sono criminali, sono persone comuni del nostro paese che hanno trovato il modo di esprimere il loro malcontento”.

6.- Papa Francesco non molto tempo fa ci ha detto che è bene che i pastori della Chiesa riconoscano le sfide di questo tempo, di quest’ora della storia. Di fronte a questi nuovi progetti economici e sociali, con tutti i cambiamenti che portano con sé, la Chiesa non può restare mera spettatrice, né deve affrontare la situazione dall’esterno con eccessive critiche. Questi processi devono essere accompagnati dall’interno attraverso il dialogo. “Il dialogo è l’unica via, ma ci vuole un atteggiamento di disponibilità” (Benedetto XVI).

Scommettiamo a proporre vie di incontro e di dialogo, che possano portare alla riconciliazione e alla pace come unica valida alternativa, appassionarsi al nostro tempo e cominciare a fare piccoli passi in quella direzione. Scommettiamo su questo laborioso processo (Cardinale Jaime Ortega Alamino, Incontro, dialogo e accordo, Ed. San Pablo 2017, P. 49 ss.).

Clero en Cuba
Clero en Cuba

7.- INCONTRA IL VOLTO DELL’ALTRO

Uno dei libri che ho letto più volte è L’Abbraccio di Gerusalemme, di Valeria Martiano.

Leggiamo ciò che condivide con noi il Patriarca Atenagora: perché il dialogo abbia luogo, uno deve andare incontro all’altro totalmente disarmato. Senza pregiudizi, attento e aperto all’altro. Lo esprimeva molto bene con una delle sue frasi categoriche quando parlava della necessità di incontrare il volto dell’altro.

“Vieni, guardiamoci negli occhi” (ho letto questa frase incisa sul piedistallo della statua di Atenagora, nella Scuola Teologica dell’Arcidiocesi Ortodossa d’America, a Boston).

Incontra personalmente. «Vedersi, guardarsi, riconoscersi, è la via per superare i pregiudizi» (L’abbraccio di Gerusalemme, p. 23).

“Devi condurre la guerra più dura, che è la guerra contro te stesso. Devi arrivare a disarmare. Ho condotto questa guerra per molti anni. È stato terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di nulla, poiché l’Amore distrugge la paura. Sono disarmato dalla volontà di avere ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sto in guardia, gelosamente teso per le mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non mi aggrappo alle mie idee o ai miei progetti. Se me ne presentano di migliori, o anche non migliori ma buoni, li accetto senza rimpianti. Ho rinunciato a fare confronti. Ciò che è buono, vero, reale, per me è sempre il migliore. Per questo motivo non ho più paura. Quando non hai più niente, non hai più paura. Se ci disarmamo, se ci svendiamo, se ci apriamo all’uomo-Dio che fa nuove tutte le cose, Egli ci dona un tempo nuovo in cui tutto è possibile. È Pace!” (Olivier Clément, Dialogues avec le Patriarche Athenágoras I, Ed. Fayard, Paris 1969, p.183. Tradotto e offerto da Xavier Melloni).

8.- L’Assemblea deve essere voluta da entrambe le parti e presuppone:

Ascolta, senza condannare. Giovanni XXIII diceva: “Cerca ciò che ci unisce e separa ciò che ci separa”.
Esporre proponendo e non imponendo.
Credi nell’altro, anche se l’altro non crede a quello che faccio io (questa esperienza a Cuba mi ha arricchito).
Sii credibile (alcuni mi dicono: questi non sono credenti, ma la mia domanda è: e noi siamo credenti credibili?).

Consideriamo ora la persona stessa degli evangelizzatori. È stato ripetuto più volte ai nostri giorni che questo secolo ha sete di autenticità, soprattutto nei confronti dei giovani si afferma che soffrono orrori di fronte al fittizio, di fronte alla menzogna e sono anche debitamente sostenitori della verità e della trasparenza. A questi segni dei tempi dovrebbe corrispondere un atteggiamento vigile. Tacitamente o ad alta voce, ma sempre con forza, ci viene chiesto: Credi davvero in ciò che annunzi? Vivi ciò in cui credi? Predi veramente ciò che vivi?

Oggi più che mai la testimonianza di vita è diventata una condizione essenziale, in vista di una reale efficacia della predicazione. Senza girarci intorno, possiamo dire che in una certa misura ci assumiamo la responsabilità del Vangelo che annunciamo (Evangelii nuntiandi, 76).

(Condivido con voi un’esperienza che ho fatto all’Avana: un famoso medico cubano che era stato in carcere per non aver nascosto la sua fede, dalla messa quotidiana, una mattina si avvicinò a San Juan de Letrán e mi disse: “Padre Manuel, scusa me Che viene così nervoso, ma io ho partecipato all’Eucaristia e mi ha rattristato vedere come celebrava il sacerdote.Quando ha finito l’ho aspettato per salutarlo e allo stesso tempo fargli una domanda: Credi? Mi fai questa domanda? Non ho potuto fare a meno di dire: beh, se ci credi, fallo vedere!”).

9.- A livello ecclesiale, l’ENEC è stato un incontro unico che ha segnato un prima e un dopo nella storia della Chiesa di Cuba. Il tempo è passato, ma quello che ci ha raccontato poi mantiene la freschezza di ciò che è nato, la saggezza del fare le cose.

Cito le parole di un pastore di pastori, a lei noto, Mons. Adolfo Rodríguez: “L’ENEC non vuole più incoraggiarci a temere che paralizza, diffidenza che appesantisce, viltà che maschera o il complesso che inibisce, fa non cadere nell’errore dei riduzionismi in materia di fede, mettendolo accanto, o davanti o in competizione con altre ideologie. Non aspira alla riconquista di poteri, al salvataggio di cariche, favori o privilegi per la Chiesa. Ieri, come oggi, la Chiesa non vuole altro che lo spazio necessario per compiere la sua missione, per dare anche il suo giudizio etico, morale e non politico, anche su problemi non strettamente religiosi ma umani, che non costituiscono un privilegio ma un diritto e un servizio: il diritto che ha l’uomo di ricevere la Parola di Dio e di illuminare tutta la sua vita con la luce di quella Parola”.

La Chiesa vuole annunciare, con franca amicizia, la sua fede a tutti gli uomini, anche a coloro che la considerano nemica, perché non vuole sentirsi nemica di nessuno. La Chiesa, infine, auspica che qui la fede cessi di essere un problema, una debolezza o un diversivo ideologico; e che il futuro non assomiglia al passato.

E per arrivare a questo, la Chiesa non ha altra via o linguaggio che il linguaggio e la via del cuore.

La speranza della Chiesa

Lo Spirito ci condurrà attraverso le sue vie, che non sono le nostre vie, a quell’invito sempre più fedele di Gesù Cristo e a quella comunione sempre più stretta con il nostro popolo cubano, con il quale condividiamo un misto di fede, cultura e razze, e condividiamo la gioia di nascere qui.

I cubani, per il nostro carattere, sono capaci di costruire qualunque cosa in comune; e insieme costruiremo questo cammino dello Spirito, congratulandoci a vicenda per tante cose che vanno bene nel nostro Paese e chiedendoci cosa possiamo fare umilmente perché quelle che vanno male vadano bene.

Aperta all’imprevedibilità dello Spirito, la Chiesa cubana vuole essere la Chiesa della speranza: che ricorda il passato, vive per il presente e spera per il futuro.

Abbiamo speranza e vogliamo dare parole di speranza a chi le chiede, a chi ne ha bisogno, a chi ha messo gli occhi solo a terra come limite alle proprie aspirazioni e sente che manca qualcosa.

Non abbiamo né la prima né l’ultima parola di tutto, ma crediamo che ci sia una prima e un’ultima parola di tutto e speriamo in Colui che l’ha: il Signore. In essa guardiamo con serena fiducia al futuro sempre incerto, perché sappiamo che domani, prima che sorga il sole, la Provvidenza di Dio sarà sorta su Cuba, e sul mondo intero (Documento ENEC, 31).

Il sole non è ancora sorto… ma non bisogna spazientirsi. La nostra cosa è seminare anche se non possiamo raccogliere i frutti…

“Cammina oggi il sentiero di oggi

e domani domani,

senza fingere di vedere tutta la strada,

Puoi fallire in questa vita andando piano ma puoi fallire anche con la fretta” (Ob. cit. p. 28).

José Martí affermava: “Bisogna fare in ogni momento ciò che è necessario in ogni momento” (Taccuino di appunti, t. 21, p. 107). «E ciò che deve durare a lungo va fatto con lentezza» (Franca, La Opinion Nacional, Caracas 1882, t.14 p. 486).

10.- Infine, vorrei condividere con voi alcune parole sul pericolo di lasciarci manipolare dalla violenza, perché rabbia, risentimento e scoraggiamento possono annidarsi nei nostri cuori di pastori, visto che nulla cambia e sembra che torniamo sempre allo stesso punto.

Forse l’11J è una finestra su un futuro diverso nel nostro Paese, è il grido taciuto per tanti anni dietro il “nasobuco” che ricopre la nostra vera anima. Quell’anima che pretende dignità, diritti, giustizia e non per capriccio, ma perché siamo stati creati liberi.

Liberiamoci dall’inimicizia che si è infiltrata in molti aspetti della nostra vita, difendiamoci e difendiamoci, proteggiamo il nostro spirito dalla tentazione della forza, dalla contaminazione del cuore e dal disprezzo dei nostri simili.

Siamo pastori, fratelli che fortificano il fratello, complici della riconciliazione e della speranza. Di quella speranza che non è utopia ma certezza di un futuro che si fa strada tra di noi.

Concludo con le parole di un testimone del nostro tempo, il Vescovo Pedro Casaldáliga:

È tardi

ma è il nostro momento.

È tardi

ma è tutto il tempo

cosa abbiamo a portata di mano

per fare il futuro.

È tardi

ma siamo noi

quest’ora tarda.

È tardi

ma è mattina presto

se insistiamo un po’.

 

P. Manuel Uña Fernández, O.P.

L’Avana, Cuba, il 4 agosto 2021.

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