Al tavolo della domenica
ci sono due sedie vuote.
Carlos Varela
Come è già stato detto, la decisione di partire per altre terre ha pesato su molte persone negli ultimi decenni a Cuba. Tuttavia, tale decisione ha anche la sua controparte. Chi non parte, resta. E restare a vivere in questo Paese, ancora una volta, come accade in poche parti del mondo, è una decisione che ha tanti prezzi.
Dei miei anni da studente universitario, mentre vagavamo interminabili pomeriggi e notti tra gli habanero culturali intellettuali e bohémien, ricordo un dialogo a cui ho assistito. In luoghi come il cortile dell’UNEAC, non era raro che qualche figura importante delle nostre lettere, macchine fotografiche, arti o accordi, a lavoro fatto, si sedesse e condividesse il tavolo con il pugno di studenti desiderosi di conoscere e iper-interrogativi di tutto, che abbiamo portato in quel decennio aspro e confuso degli anni novanta. In una di queste occasioni, un importante intellettuale cubano spiegò a uno sbalordito visitatore europeo le conseguenze negative della sua decisione di rimanere a Cuba.
Non l’ha mai detto, ma crediamo che il suo amore incrollabile, visibile e sempre rinnovato per le donne cubane sia stato il motivo principale del suo attaccamento a questo Paese. Tuttavia, quel pomeriggio abbiamo ascoltato, uno per uno, i risultati della sua decisione. Quello studioso, già sulla sessantina, che viaggiava, che pubblicava libri, non era riuscito a trovare una casa con buone condizioni e abbastanza spazio. Pertanto, anche lui non era stato in grado di avere figli. Certo, la raccolta del diritto ai suoi libri qui pubblicati, non gli permetteva di acquistare un’auto, il che limitava anche la sua partecipazione alla vita culturale della città e alla propria vita quotidiana, in tempi di affollati autobus e biciclette che erano già a disagio alla sua età. Più di una volta sono stati gli amici e le entità straniere a pagargli i biglietti e gli alloggi per poter partecipare a convegni e altri eventi all’estero, perché il suo stipendio nella moneta nazionale degli anni ’90 non gli permetteva nemmeno di avvicinarsi a un aereo. È quasi superfluo dire che, in tali tenute, ha sempre rappresentato la nostra cultura con dignità e altezza intellettuale. È necessario aggiungere che, sebbene cubano fino all’osso, il suo atteggiamento poco compiacente, la sua abitudine di assumere e difendere le sue verità in qualsiasi scenario senza risparmio di argomenti, lo rendevano poco degno dell’affetto istituzionale di certi settori.
A tali prove, siamo rimasti sbalorditi. Se un intellettuale di quel calibro vivesse in questo modo, cosa potremmo aspettarci? Forse la risposta migliore è che, di quel vasto gruppo di studenti, pochi, tranquillamente accomodanti sulle dita di una mano, siamo ancora oggi a Cuba.
Perché sì, restare comporta prezzi alti e complessi quasi quanto partire. Un giornalista straniero una volta mi ha detto che la vita a Cuba è così mutevole che i cubani non si rendono conto di quanto siamo preparati ai cambiamenti e di come li affrontiamo senza traumi. Purtroppo però i cambiamenti sull’Isola non sempre puntano in positivo: anche chi deve allora rimediare a gravi squilibri, per qualche sinistro sorte, o ritardi umani, pigrizia o limitazioni, improvvisamente rallentano, si intersecano e non finiscono di cagliare fino a dopo una lunga sofferenza, oppure non cagliano mai e il ciclo ricomincia.
Soggiornare a Cuba implica, non per tutti, ma per molti, affrontare una quotidianità sempre più difficile. Prezzi elevati e prodotti il cui valore si impenna a fronte di salari insufficienti; i servizi che funzionano male, che non arrivano mai o che scompaiono senza più contro l’urgente necessità di questi; scarsità e soluzioni a questo, che non sono mai l’ideale, nemmeno quelle giuste, ma quelle che esistono, quelle che possono essere, sono il panorama quotidiano del nostro ambiente.
Come quell’intellettuale dell’aneddoto, incontriamo insegnanti, professionisti di materie varie e talvolta molto complicate, il cui insegnamento e l’alta qualificazione erano costosi e che altrove vivrebbero benissimo, ma che qui sono rimasti. Molti sono atterrati a terra e hanno fatto tesoro dei risultati collettivi, hanno contribuito con le loro conoscenze e hanno cercato di contribuire a migliorare la vita del loro paese. Altri hanno avuto meno successo o sono stati vittime di piani falliti, idee che non sono state eseguite, progetti falliti o semplice stanchezza.
La permanenza, oltre agli sforzi quotidiani, genera anche conseguenze spirituali. In una popolazione che invecchia rapidamente, ad ogni data ci sono più famiglie in cui si verifica la cosiddetta sindrome del nido vuoto. Genitori e nonni, la cui età non permette loro di andare lì a combattere e lavorare in altri cieli, restano qui, con uno dei bambini, o con nessuno, perché i giovani se ne vanno. A volte ricevono rimesse, a volte per niente. Le sedie di famiglia vuote ogni domenica, non di rado feriscono più di ogni mancanza materiale. Anche con un pranzo povero, preferirebbero sicuramente considerarli tutti occupati. Senza aggiungere che, quello stesso padre o nonno, il suo sostegno deve essere garantito il giorno dopo e tornare in un’arena sempre più difficile.
La vita poi gira un po’ intorno a una telefonata, al viaggio di visita, alle riunioni. Non sempre chi emigra può portare con sé i propri parenti, oppure l’età o le malattie non gli permettono di adattarsi ad altri climi, ad altre usanze. Stare genera anche distanze, solitudine, rimpianti.
In qualche testo perduto nei miei archivi e nella mia memoria, non ricordo bene se da giornalista o da intervistato, lo scrittore Leonardo Padura diceva che il nostro Paese soffriva di un’eccezionalità permanente. Quello stato di perenne tensione, che con colpi di umorismo e ironia cerchiamo di dimenticare e navigare, sembra a volte non abbandonarci mai. Il desiderio che, prima o poi, la normalità, la calma, un po’ di pace finalmente tocchino le nostre porte dell’isola e si stabiliscano qui dalla parte delle acque che ci circondano, è una di quelle speranze che non dovrebbero essere spente. Forse così, partire o restare a vivere in questa bellissima terra, non sarebbero decisioni straordinarie o firmate come soluzione a tante esigenze di ogni tipo. In un Paese normale, senza scarsità, senza code, senza blocchi, in cui scegliere dove vivere sarebbe una decisione in più e non qualcosa di trascendente e quasi epico, le sedie familiari vuote della domenica peseranno sicuramente meno sull’anima. Anche qua o là forse sarebbero stati tutti occupati molto più spesso. Ω
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