Balletto sul grande schermo

Giselle BNC en Kennedy Center de Washington 2018

La grande differenza tra opera e balletto non si scende alla predominanza della poesia canoa nel primo e nel mondo della poesia corporea nel secondo; sta nella sua visione caratteristica del mondo rappresentato. Se l’operistico è quasi sempre proiettato dalla rifusione di dramma, tragedia e commedia in uno spettacolo che si appella in abiti più o meno realistici alla vivisezione di passioni, conflitti e incomprensioni, la danza classica raramente rinuncia a un’avventura, preferibilmente romantica, quasi onirica, il cui pubblico è invitato a penetrare in una serie di segni e incontri governati dal caso e dalle chiavi di un valore simbolico e mistico. Non cerca la disposizione razionale e logica di una storia ma quei momenti “privilegiati” che equivarrebbe al linguaggio dei sogni e della rivelazione. Tra gli angoli e le fessure delle figure cominte e levitanti sulla filigrana musicale, la drammaturgia si deposita in un rituale di miraggi e incantesimi. L’esistenza, nella sua pienezza, è “felice” e la sua accettazione come trasferimento nella vita reale dipende dalla dose di estasi e potere estetico fornita dalle piroette dei ballerini, dal grado di lirismo che deriva dalla musica e dalla corrispondenza di scenario, illuminazione e concezione dello spazio con il mondo da formare.
Il balletto classico partecipa al rito, alla leggenda e all’ambiguità. A volte esorta lo spettatore a condividere con Heráclito l’idea che il fuoco è la radice della vita, che tutto viene dal fuoco, ma a volte ci spinge a credere, con Racconti di Mileto, che tutto viene dall’acqua; che tutto è acqua (come se la creatura umana trovassi un porto sicuro, dopo un viaggio incinta di minacce).
Nel balletto classico, la brama dell’etereo e del sovrasensibile è spesso accompagnata da sortilegio, stregoneria e previsione infallibile. Simboli cristiani e pagani sono in questo invito alla danza. Il balletto ha tenuto conto di questo fondo comune e ha approfittato di miti e tradizioni che continuano ad affascinare l’immaginazione del pubblico. Che quest’arte sia stata in grado di connettersi anche con spettatori che non padroneggiano il vocabolario tecnico della specialità, soprattutto con il magnete perpetuo di opere come Giselle, Coppelia e Il Lago dei Cigni, è una delle tante prove dell’omaggio che dà bellezza alla sopravvivenza.
Il nesso tra cinema e balletto classico ha esperienze di autorità e impatto. Tra questi spicca la realizzazione inglese The Red Shoes (1948), diretta dal duetto di cineasti che si sono formati sotto l’etichetta The Archers, in una gara tirata con successi, Michael Powell ed Emeric Pressburger. La trama del film – ben noto – sviluppa il conflitto di una giovane ballerina, che strappa orlo sotto la pressione di un fidanzato egoista e le richieste di un imprenditore in apparenza duro come una statua d’acciaio.
I confini sempre sfuggenti tra vita e arte sono affinati o confusi nel loro argomento fino a quando le dimensioni della tragedia non vengono date al melodramma. Un’altra cosa: il film non si limita a sgretolare l’angoscia esistenziale a cui il protagonista è spinto e indirizza lo sguardo – senza nulla di consueto profondità e lucidità – agli intertethelon di un mondo afflitto dai demoni della rivalità, dalla durezza del mestiere e dal prezzo umano della dedizione senza riserve alla professione. A ciò si aggiunge un valore espressivo di alto livello. Il film dimostrò al massimo che le telecamere cinematografiche non erano destinate ad essere spettatori passivi di uno spettacolo montato sulle tavole. L’esecuzione del balletto centrale ha acquisito scioltezza, ha permesso di espandere il palcoscenico ed estendere la sua azione a spazi inaccessibili al teatro.
Metafore e simboli intersecati nella storia immaginaria, il compito della danza (una bambola fatta con ritagli di giornale diventa un essere in carne e ossa che balla con l’eroina), mentre le pantofole rosse – incarnazione di una magia che trascina e domina, schiavizza e seduce, offre generosamente e richieste con dispotismo – afferrano lo schermo , dotato della propria vita, proprio come il loro proprietario, nella sostituzione del balletto, transita verso il mondo dei morti. Va notato che il debutto dell’attrice e famosa ballerina Moira Shearer nel cinema, ha fortemente oscurato tutti i suoi successivi interventi sul grande schermo (Hoffman’s Tales, Three Love Story, The Paris Ballets, tra gli altri). Tuttavia, dobbiamo scontrarci con una domanda intrigante come l’enigma della Sfinge: Perché l’artista, morto nel 2006, ha sempre considerato un errore aver girato The Red Shoes?
Nel 1946, forse per confermare che l’arte è una rottura con le nostre solite modalità di visione, lo scrittore e sceneggiatore americano Ben Hecht diresse un film intitolato Lo spettro della rosa, incentrato sull’omonimo balletto di Carl Maria von Weber e sulla coreografia di Fokine, segnato uno dei momenti memorabili del brillante Nijinski. Il regista interpola un sogno nel corso della trama e del sonno è un portatore di balletto, la cui rappresentazione, in un clima allo stesso tempo rarefatto e poetico, è alla base dell’irrealtà con l’attaccamento a chiavi piuttosto esoteriche. Esperimenti di questo tipo non sono stati frequenti nel cinema successivo, anche se molti di noi potrebbero rimpiangere che l’esempio di Ben Hecht, con la sua ricerca di nuove irradiazioni semantiche della danza classica, non avesse i seguaci che meritava.
Un altro caso che richiede attenzione è il film inglese The Tales of Hoffman, di Powell e Pressburger. Uscito tre anni dopo The Red Shoes, i confronti con questo classico della folla hanno causato molti danni al nuovo film e causato un rifiuto ingiusto di coloro che avevano sperato in uno spettacolo simile nel gancio a tema e nella modellatura del personaggio. Infatti, il film ispirato al lavoro di Offenbach era in anticipo un piatto diverso e pocogerabile per gli spettatori che non hanno familiarità con un cinema costruito su fantastiche evocazioni e un tema così fragile che briciola un tappeto volante incapace di sostenere il peso dei suoi passeggeri. Una parte delle critiche ha attaccato i “in artistici del film e un’altra, più tollerante, ha espresso rispetto per la sua atmosfera di sogno e ricchezza visiva. In entrambi i casi, questi Racconti di Hoffman devono essere certificati come un’avventura piena di rischi, a volte fantasiosa, a volte sterile, che si sottoseni più alle esigenze del balletto che a quelle cinematografiche.
A Hollywood, nel campo della narrativa, il balletto classico è stato talvolta usato come un semplice elemento di riferimento, che non può mai occupare un piano stellare nella trama della storia.
Nel 1940, Mervyn LeRoy pubblicò la sua versione del dramma teatrale di Robert E. Sherwood The Waterloo Bridge, con Vivien Leigh nei ruolo di una giovane donna baleniera nella Londra gravata dalla guerra, che, licenziata dal teatro dove lavora, si impegna nella prostituzione e, più tardi, quando intravede la possibilità di essere felice accanto all’uomo che ama (e crede morto) il peso del suo disonore la trascina nel suicidio. Questa sinossi, che ci costringe a pensare ai peggiori folletini di Pedro Mata e Vargas Vila, difficilmente può dare un’idea dell’impresa compiuta dal regista: profondità nella cattura dell’ambiente, assenza di flussi lacrimali, statura umana nei personaggi, dialoghi che si sviluppano con naturalezza e convinzione, ignari della verbosità pseudofilofila che tanto abbonda nei melodrammi tipici dell’epoca. Frammenti del Lago dei Cigni sono l’unico contatto diretto del film con il balletto (e, per un maggiore contenimento, alla musica di Čajkovskij viene impedito di riapparire invadentemente nella colonna sonora).
Molto inferiore nei valori artistici, Men in Her Life di Gregory Ratoff emerse nel 1941, sul passato amorevole di una donna baleniera sposata con la sua insegnante di danza. Sei anni dopo fu finito un modesto film di Henry Koster: The Unfinished Dance, un remake del film francese Ballerina, in cui una temibile ragazza non trova altro modo per manifestare il suo fanatismo per una bella ballerina che liberarla dal suo rivale attraverso un incidente simulato. Il film esplose fino alla pienezza della musica di Čajkovskij.
Lastrada da momenti molto sentimentali (è che la vita dei ballerini è sempre segnata da conflitti e frustrazioni?) apparsa nel 1977 Decisive Step (The Turning Point). Acclamata all’epoca e dimenticata oggi, la commedia è stata nominata per undici Hollywood Academy Awards e non ne ha ricevuta nessuna. È stato diretto da Herbert Ross, i cui legami cinematografici con il balletto sarebbero rimanere, con risultati incomunicabili, attraverso Nijinski (1980), un film incentrato sul rapporto omosessuale del più grande ballerino del XX secolo con l’uomo d’affari del Balletto Russo Sergey Diaghilev e Danzarines (Dancers, 1987, con Mikhail Baryshnikov), che costituiva un clamoroso fallimento. Paso Decisivo si concentra sulla reunion, dopo diversi anni, di due ex amici che, in gioventù, hanno ricevuto lezioni di balletto. Emma trascina la frustrazione di non essere in grado di creare una famiglia per la sua dedizione alla danza; Dee-Dee si rammarica di aver rinunciato al suo desiderio di diventare una grande ballerina per occuparsi dei suoi doveri di madre e moglie. Attraverso questi conflitti disegnati con regola e bussola, è stato presentato un film di confessioni e ricordi che è riuscito nella delicata interpretazione di Annet Bancroft nel ruolo del sorprendente lavoro di Emma e Baryshnikov su un personaggio di supporto e le sue proposte meno affidabili nello sviluppo di una drammaturgia molto masticata e esagerata, con premeditazione e alevosía , dell’attrice Shirley MacLaine.
Nel 2003, il regista veterano Robert Altman ci ha regalato The Company, un’opera che scava nelle periptions dell’assemblea di un balletto di un gruppo che, dietro le quinte, nel vortice delle prove o nell’interrelazione umana dei ballerini, ha cercato alcune chiavi del mestiere, fino ad allora poco studiato dal grande schermo. Non c’era mancanza di interesse per questa incursione, anche se alcune dosi di freddezza e calcolo e un culto di Terpsícore non vengono eseguiti con tutto il rigore necessario.
Un’altra performance hollywoodiana che ha scatenato polemiche è stata The Black Swan (Black Swann, 2010), diretto da Darren Aronowski, che ha riferito un Oscar a Natalie Portman come attrice protagonista. Le crisi che affrontano il loro carattere sono focalizzate sui loro bordi più abissali ma, essendo scartati in un tono di isteria e grandiloquenza, allontanano la storia da quello che potrebbe essere stato il loro sostegno più degno per un’analisi midollare. Il processo di autodistruzione, non estraneo al masochismo, di una donna che ha confuso i suoi obiettivi di carriera con un esercizio senza pause di frustrazione, insicurezza e squilibrio, ha richiesto più lucidità nella sceneggiatura e meno ambiguità nelle immagini. Gli inchiostri neri alla fine corrodeno la struttura narrativa e guadagnano terreno dubbio pieno di violenza e sordità. In altre parole, un caso patologico viene smantellato nei suoi locali esterni e arriva a offuscare le fonti primarie della sua virulenza. Sullo sfondo, l’immagine possessiva della madre cerca di infondere credibilità nel conflitto, ma la delineazione del personaggio (un’altra chiatta perduta nella sceneggiatura) fa sì che le allucinazioni e gli incubi del ballerino, ripetendo l’orlo, spesso causino più irritazione che misericordia. Nonostante gli arresti formali del film in fotografia, suono e direzione artistica, l’aggressività del discorso, nei momenti apocalittici, lascia poco spazio alla calma.
Il miglior film legato al balletto degli ultimi tempi viene dall’Inghilterra, intitolato Billy Elliot (In spagnolo, voglio ballare). È stato pubblicato nel 2000 dal regista Stephen Daldry, la cui acuità per lo studio dei personaggi sarebbe stata confermata due anni dopo con il film di supersede The Hours. In una città mineraria nel nord del paese, il ragazzo Billy Elliot scopre la sua passione per la danza, ma si scontra con i piani del padre, che vuole indirizzarlo verso la boxe. A meno che l’uomo non lo scova, il ragazzo riceve lezioni da un insegnante maturo, che si fida delle sue capacità. Un giorno il padre lo vede ballare e accetta che Billy abbia un futuro artistico, portando a una lotta incessante per mettere il piccolo artista sulla strada giusta. Questo ripaga. Il film si conclude con l’immagine congelata di Billy Elliot (congelato anche quello del ragazzo Anton Doinel nel classico di Truffaut I 400 colpi, ma in circostanze totalmente opposte) al momento di eseguire una delle sue imprese davanti al pubblico che ammira il virtuosismo di un adulto consacrato.
La trama è senza dubbio piena di innumerevoli biografie di combattenti e plotoni, trombettisti e cantanti, aviatori e inventori, che dall’alto del successo vengono restituiti al regno della loro infanzia e adolescenza quando, contro diversi ostacoli, le abilità che li porterebbero alla fama. Ma c’è una cosa che dà un vantaggio a Billy Elliot: a) non fa concessioni al sentimentalismo prefabbricato; b) schiva ogni tratto di fatuità ed egoismo nel ritratto del suo giovane protagonista, sempre mostrato come una creatura che, con naturalezza e semplicità, assume il suo destino senza i vanti di prematura maturità che hanno pesato molte immagini dei bambini prodigio della celluloide e c) l’equilibrio che sostiene l’opera tra un ambiente poco stimolante per la vocazione artistica e il peso di un’inclinazione permeata di legittimità e talento. Insomma: autenticità nel design drammaturgo, allergia all’eccessiva esicità drammatica, intelligenza nella caratterizzazione della caratterizzazione dei personaggi. L’unica protesta per il film non ha nulla a che vedere con i suoi valori artistici: l’impressionante debutto di Jamie Bell, nel personaggio centrale, che non cede un millimetro all’esibizione delle sue co-star esperte, non ha ricevuto una nomination all’Oscar.
I contatti del cinema latinoamericano con il balletto rimangono un argomento eccezionale nella sua carriera nel campo della narrativa. A volte il disco è stato ridotto a includere la danza classica in una sequenza di processo, all’interno di una storia lontana da quell’arte (ricordate il balletto incorporato alla fine della commedia messicana del 1942 I tre moschettieri, con Cantinflas) o programmarlo come rinforzo del corpus drammatico (esempio tipico: balletto sviluppato nel vecchio film argentino Dove le parole muoiono , diretto da Hugo Fregonese nel 1946. Un pallido approccio al mondo della danza classica si è verificato negli studi Bonaerenses a metà del secolo scorso con The Crystal Birds di Ernesto Arancibia, un nastro articolato dal triangolo sobado del direttore di balletto colpito dalle almanachi, primo ballerino della compagnia e la giovane sensazione di danza che si trova tra gli amanti.
Cuba, un intero potere del balletto, ha un solo campione, la storia della ballerina traumatizzata che domina una delle sezioni de La vida è quella di fischiare fernando Pérez. Il tema, con risonanze di The Red Shoes and the Story The End of Adventure di Graham Greene, è trattato con un’enfasi sulla sensualità e, allo stesso tempo, con una dimostrazione di sottigliezze psicologiche, amore per i dettagli e potere di suggestione (più una Laura Ramos molto appropriata nel personaggio centrale) rispetto alla sua contemplazione, quindici anni dopo la prima (1998) , conserva il suo vigore e pigrizia.
Se la finzione, in generale, ha conosciuto vittorie di rilievo e difetti prospettica, molti documentari sono stati autori dell’alleanza del balletto classico con le cinecamere.
Opere concepite, soprattutto, per assicurare ai posteri una testimonianza fratturata sui grandi interpreti, questi documentari ricreano il fenomeno artistico nella sua immediatezza, nella sua autenticità e nei suoi insegnamenti. In questo senso, il lavoro svolto dagli studi centrali sui documentari nell’ex Unione Sovietica può essere classificato come esemplare. I nomi di due ballerine di fama mondiale: Galina Ulanova e Maia Plisétskaya, illustrano eloquentemente questo compito di conservazione e salvataggio.
L’Ulanova (1910-1992), appartenente ad una famiglia legata al teatro, debuttò sul palcoscenico nel 1928 e fu prima ballerina del Bolshoi tra il 1944 e il 1961, anno del suo ritiro, dopo di che si dedicò alla formazione professionale di numerosi ballerini destinati a godere di meritato prestigio. Lo schermo raccolto completò i suoi interventi nei balletti Romeo e Giulietta, di Prokofiev e Giselle di Adolphe Adam, così come frammenti de Il lago dei cigni di Čajkovskij, inclusi nel film I maestri del balletto russo.
Rinomata per il suo fascino personale e la sua abilità di recitazione, l’artista ha ottenuto altri successi con Cenerentola e Stone Blossom, entrambi balletti prokofiev. Elena Lútskaia osserva: “Ha interpretato la Giulietta di Shakespeare per vent’anni, e la sua eroina è sempre apparsa stimolante, palpitante e luminosa”.
Il documentario del 1963 sulla sua vita e il suo lavoro fu un inno al balletto e una testimonianza affidabile della sua esistenza quotidiana e del suo più magnanivo lavoro di insegnamento. A proposito, il film ha permesso di confrontarsi con due versioni diverse ma ugualmente abbaglianti di Giselle: quella di Anna Pavlova (conservata nel film Il cigno immortale) e quella dell’Ulanova (girato nel Bolshoi). L’importanza di questo fatto, resa possibile dal cinema, non deve essere sottolineata.
La Plisétskaia, nata nel 1925, studiò al Bolshoi e divenne solista nel 1943. Riconosciuta come una delle più grandi ballerine del mondo, ha eccelleto nella sua impeccabile tecnica e sensibilità, in un repertorio che comprende la Bella Addormentata (Čajkovskij) e Don Chisciotte (Mincus), tra molte altre opere. È apparsa, solo come attrice, nella versione del 1967 di Ana Karenina di Alexandr Zarji.
Il documentario a lui dedicato nel 1989 la mostra in un momento in cui prova accanto al bar degli esercizi, in piena performance e dietro le quinte, nel museo e nella sua casa.
A Cuba abbiamo Giselle, balletto girato da Enrique Pineda Barnet nel 1964, che rappresenta un omaggio ad Alicia Alonso in una delle sue esibizioni supreme, accompagnata da Azari Plisetski, Mirta Plá, Josefina Méndez, Loipa Araujo e altre figure di danza rilevanti.
La chimica tra balletto classico e cinema non si ottiene nello stesso modo in cui l’onnipotente genio della lampada ha soddisfatto i desideri del suo maestro. Forgiare un’opera filmica di portata e profondità che estrae nuove vibrazioni dall’arte esposta nelle tavole da tante persone consacrate richiede, insieme a competenze puramente tecniche, senso estetico, padronanza delle risorse visive, cultura generale, valutazione continua dei fini e dei mezzi e, allo stesso tempo, quella capacità di sintesi che sappia coniugare musica e poesia, plasticità e prestidigizione , in una proposta di delectation, impianto e cabotaggio. Compagnia dura, senza dubbio. Ma molti l’hanno già fatto. Ω

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