Discorso del santo Padre Francesco all’apertura del sinodo

Logo del Sínodo de los Jóvenes 2018

Aula sinodale
Mercoledì 3 ottobre 2018

Care Beatitudini, Eminenza ed Eccellenze,
cari fratelli e sorelle, cari giovani:

Entrando in questa classe per parlare dei giovani, sentite già la forza della vostra presenza, che trasmette una positività e un entusiasmo capaci di inondare e riempire di gioia, non solo questa classe ma tutta la Chiesa e il mondo intero.
Per questo motivo, non posso iniziare senza prima dirti “grazie”. Grazie a quanti sono qui presenti, grazie a tante persone che, lungo un percorso di preparazione di due anni – qui nella Chiesa di Roma e in tutte le chiese del mondo – hanno lavorato con dedizione e passione per poter arrivare a questo momento. Ringrazio il Cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, i Presidenti Delegati, il Cardinale Sérgio da Rocha, Relatore Generale, all’Arcivescovo Fabio Fabene, Sottosegretario; funzionari e assistenti del segretariato generale; grazie a tutti voi Genitori sinodali, Revisori, Revisori, Esperti e Consulenti; delegati fraterni; traduttori, cantanti, giornalisti. Grazie di cuore a tutti per la vostra attiva e fruttuosa partecipazione.
Un senso di “grazie” merita i due segretari speciali, padre Giacomo Costa, gesuita, e don Rossano Sala, salesiano, che hanno lavorato generosamente con impegno e altruisità. Hanno lasciato la pelle in preparazione.
Vorrei anche inviare un profondo ringraziamento ai giovani che sono legati a noi in questo momento e a tutti i giovani che hanno fatto sentire la loro voce in modo diverso. Vi ringrazio per aver scommesso che vale la pena sentirsi parte della Chiesa, o per entrare in dialogo con lei; Vale la pena avere la Chiesa come madre, come maestra, come casa, come famiglia e che, nonostante le debolezze e le difficoltà umane, è in grado di brillare e trasmettere il messaggio duraturo di Cristo; vale la pena aggrapparsi alla barca della Chiesa che, anche attraverso le terribili tempeste del mondo, continua ad offrire a tutti rifugio e ospitalità; vale la pena di metterci in un atteggiamento di ascolto l’uno dell’altro; vale la pena nuotare contro corrente e collegarsi ai valori più grandi: famiglia, fedeltà, amore, fede, sacrificio, servizio, vita eterna.
La nostra responsabilità nel Sinodo non è negarli, più che dimostrare che hanno fatto bene a scommettere: ne vale davvero la pena, non è davvero una perdita di tempo.
E vi ringrazio in modo particolare, cari giovani qui presenti. Il cammino di preparazione al Sinodo ci ha insegnato che l’universo giovanile è così vario che non può essere pienamente rappresentato, ma voi ne siete davvero un segno importante. La sua partecipazione ci riempie di gioia e di speranza.
Il Sinodo in cui viviamo è un momento di partecipazione. Vorrei quindi, in questo inizio dell’itinerario dell’Assemblea sinodale, invitare tutti a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità. Solo il dialogo ci fa crescere. Una critica onesta e trasparente è costruttiva e utile, mentre discorsi vani, voci, sospetti o pregiudizi non lo sono.
E al coraggio nel parlare deve corrispondere umiltà nell’ascolto. Ai giovani, durante l’incontro presinodale, ha detto: “Se quello che non mi piace parla, devo ascoltare di più, perché ognuno ha il diritto di essere ascoltato, poiché ognuno ha il diritto di parlare”. Questo ascolto franco richiede coraggio per prendere la parola e diventare portavoce di tanti giovani nel mondo che non sono presenti. Questo ascolto è quello che apre spazio al dialogo. Il Sinodo dovrebbe essere un esercizio di dialogo, prima di tutto, tra coloro che vi partecipano. E il primo frutto di questo dialogo è che ognuno si apre alla novità, a cambiare opinione grazie a ciò che ha sentito dagli altri. Questo è importante per il Sinodo. Molti di voi hanno già preparato il vostro intervento prima di venire – e vi ringrazio per questo lavoro – ma vi invito a sentirvi liberi di considerare ciò che avete preparato come un progetto provvisorio aperto a qualsiasi integrazione e modifica che il percorso sinodale suggerirà a ciascuno di voi. Siamo liberi di accogliere e comprendere gli altri e quindi di cambiare le nostre convinzioni e posizioni: è un segno di grande maturità umana e spirituale.

Il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento. La franchezza nel parlare e l’apertura nell’ascolto sono essenziali perché il Sinodo sia un processo di discernimento. Il discernimento non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e nemmeno una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che affonda le sue radici in un atto di fede. Il discernimento è il metodo e allo stesso tempo l’obiettivo che proponiamo: si basa sulla convinzione che Dio agisce nella storia del mondo, sugli eventi della vita, sulle persone che incontro e che mi parlano. Ecco perché siamo chiamati a metterci in un atteggiamento di ascolto di ciò che lo Spirito ci suggerisce, in modi e in direzioni spesso imprevedibili. Il discernimento ha bisogno di spazi e tempi. Per questo motivo prevedo che, durante i lavori, in assemblea plenaria e nei gruppi, ogni cinque interventi, si osservi un momento di silenzio – di circa tre minuti – per consentire a ciascuno di prestare attenzione alla risonanza che le cose che ha sentito appaiono nel suo cuore, di approfondire e accettare ciò che lo ha maggiormente interessato. Questo interesse per l’interiorità è la chiave per camminare sulla strada del riconoscimento, dell’interpretazione e della scelta.
Siamo segno di una Chiesa che ascolta e sta arrivando. L’atteggiamento dell’ascolto non può limitarsi alle parole che avavoliamo nelle opere sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha mostrato una Chiesa “con un debito di ascolto”, anche nei confronti dei giovani, che spesso non si sentono compresi nella loro originalità dalla Chiesa e quindi non sufficientemente accettati da ciò che sono realmente, e talvolta addirittura respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di essere un segno della Chiesa veramente ascoltata, che può essere messa in discussione dalle istanze di coloro con cui si incontra, che non sempre ha una risposta già preparata e preconditta. Una Chiesa che non ascolta è chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non sarà credibile, soprattutto per i giovani, che inevitabilmente si allontanano piuttosto che avvicinarsi.
Scappaamo dai pregiudizi e dagli stereotipi. Un primo passo nella direzione dell’ascolto è liberare le nostre menti e i nostri cuori da pregiudizi e stereotipi: quando pensiamo di sapere già chi è l’altro e cosa vuole, diventa davvero difficile sentirlo seriamente. I rapporti tra generazioni sono un terreno in cui pregiudizi e stereotipi si radicano con proverbiale facilità, senza nemmeno rendersene conto. I giovani sono tentati di considerare gli adulti come antiquati; gli adulti sono tentati di classificare i giovani come inesperti, di sapere come sono e soprattutto come dovrebbero essere e comportarsi. Tutto ciò può diventare un grosso ostacolo al dialogo e all’incontro tra generazioni. La maggior parte dei presenti non appartiene alla generazione dei giovani, quindi è chiaro che dobbiamo monitorare per evitare soprattutto il rischio di parlare di giovani provenienti da categorie e schemi mentali già superati.

Se possiamo evitare questo rischio, possiamo contribuire a rendere possibile un’alleanza tra generazioni. Gli adulti dovrebbero superare la tentazione di sottovalutare le capacità dei giovani e giudicarli negativamente. Ho letto una volta che la prima menzione di questo fatto risale al 3 000 a.C. ed è stata trovata in un vaso di argilla dell’antica Babilonia, dove si scrive che la gioventù è immorale e che i giovani non sono in grado di salvare la cultura della gente. È una vecchia tradizione di noi anziani. I giovani, d’altra parte, dovrebbero superare la tentazione di non ascoltare gli adulti e di considerare gli anziani come “qualcosa di vecchio, passato e noioso”, dimenticando che è assurdo voler sempre partire da zero, come se la vita iniziasse solo con ciascuno di loro. In realtà, gli anziani, nonostante la loro fragilità fisica, rimangono sempre come il ricordo della nostra umanità, le radici della nostra società, il “polso” della nostra civiltà. Disprezzarli, staccarsi da loro, rinchiuderli in riserve isolate o ignorarle è un segno di trasferimento alla mentalità del mondo che sta divorando le nostre case dall’interno. Trascurare il tesoro delle esperienze che ogni generazione riceve in eredità e trasmette alla successiva è un atto di autodistruzione.
Da un lato, è necessario superare con decisione la piaga del clericalismo. Infatti, ascoltare ed sfuggire agli stereotipi è anche un potente antidoto al rischio del clericalismo, al quale un’assemblea come questa è inevitabilmente esposta, al di là delle intenzioni di ciascuno di noi. Nasce da una visione elitaria ed esclusiva della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare senza più che come un servizio libero e generoso da offrire; e questo ci porta a credere che apparteniamo a un gruppo che ha tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare o imparare nulla, o fa così ascolta. Il clericalismo è una perversione ed è la radice di molti mali nella Chiesa: dobbiamo umilmente chiedere perdono per loro e, soprattutto, creare le condizioni per non ripeterli.
D’altro canto, tuttavia, è necessario curare il virus dell’autosufficienza e le conclusioni affrettate di molti giovani. Un proverbio egiziano dice: “Se non c’è un vecchio in casa tua, compralo, perché sarà utile.” Ripudiare e rifiutare tutto ciò che è stato trasmesso nel corso dei secoli porta solo alla pericolosa perdita che purtroppo minaccia la nostra umanità; porta allo stato di delusione che ha attanagliato il cuore di intere generazioni. L’accumulo, nel corso della storia, delle esperienze umane è il tesoro più prezioso e affidabile che le generazioni ricevono l’una dall’altra, senza mai dimenticare la rivelazione divina, che illumina e dà senso alla storia e alla nostra esistenza.
Fratelli e sorelle: Il Sinodo risvegli i nostri cuori. Il presente, anche quello della Chiesa, appare pieno di posti di lavoro, problemi e fardelli. Ma la fede ci dice che è anche kairos, in cui il Signore viene ad incontrarci per amarci e chiamarci alla pienezza della vita. Il futuro non è una minaccia da temere, ma il tempo che il Signore ci promette perché possiamo sperimentare la comunione con Lui, con i nostri fratelli e con tutta la creazione. Dobbiamo riscoprire le ragioni della nostra speranza e soprattutto trasmetterle ai giovani, che hanno sete di speranza, come ha giustamente affermato il Concilio Vaticano II: “Possiamo pensare, giustamente, che il futuro dell’umanità sia nelle mani di coloro che sono in grado di trasmettere alle generazioni per venire ragioni di vita e di attesa” (Cost. Past., Gaudium et spes, 31).
L’incontro tra generazioni può essere estremamente fruttuoso nel generare speranza. Il profeta Gioele ce li insegna — ho ricordato anche ai giovani l’incontro presinodale — in cui considero la profezia del nostro tempo: “I vostri anziani avranno sogni e la loro giovinezza vedrà visioni” (3:1) e profetizza.
Non c’è bisogno di sofisticati argomenti teologici per dimostrare il nostro dovere di aiutare il mondo contemporaneo a entrare nel regno di Dio, senza false speranze e senza vedere solo rovine e problemi. Infatti, san Giovanni XXIII, parlando delle persone che apprezzano i fatti senza sufficiente obiettività o giudizio prudente, disse: “Non vedono nei tempi moderni, ma prevaricazione e rovina; dicono che il nostro tempo, rispetto al passato, è peggiorato; e si comportano come se non avessero imparato nulla dalla storia, che rimane un maestro di vita” (Discorso tenuto per la solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Pertanto, non dobbiamo essere tentati da “profezie di disgrazie”, né spendere energie per “tenere conto dei fallimenti e gettare amarezza”, dobbiamo tenere gli occhi fissi sul bene, che “spesso non fa rumore, non è oggetto di blog o appare sulle prime pagine”, e non essere spaventati “di fronte alle ferite della carne di Cristo , sempre causato dal peccato e spesso dai figli della Chiesa” (cfr Discorso ai Vescovi partecipanti al corso promosso dalla Congregazione per i Vescovi e per le Chiese orientali, 13 settembre 2018).
Impegniamoci a cercare di “frequentare il futuro”, e a uscire da questo Sinodo non solo un documento – generalmente letto da pochi e criticato da molti – ma soprattutto proposte pastorali concrete, capaci di svolgere il compito del Sinodo stesso, che è quello di far germinare i sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire le speranze, stimolare la fiducia , ferite da benda, intrecciano relazioni, resuscitano un’alba di speranza, imparano gli uni dagli altri e creano un immaginario positivo che illumina le menti, brucia i cuori, dà forza alle mani e ispira ai giovani – senza eccezioni – la visione di un futuro pieno della gioia del Vangelo. Grazie. Ω

Faccia il primo comento

Faccia un comento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*