Il libro cubano della saggezza

José Martí, all’età di diciotto anni, rilasciò nel 1871 il suo pamphlet The Political Presidium a Cuba. La denuncia dei crimini commessi nella prigione di Habanera dall’amministrazione spagnola contiene forti appelli a Dio. Prima di recarsi nella metropoli, il giovane ha potuto frequentare la lettura della Bibbia nella casa del catalano Sardá, sull’isola di Pinos. È il grido di denuncia dei profeti che nutre il suo stile, ma la divinità che invoca non è il veterotestamentario Yaveh, ma la fonte di un principio etico universale: “Dio esiste, tuttavia, nell’idea di bontà, che veglia sulla nascita di ogni essere, e lascia nell’anima che in essa incarna una pura lacrima. Il bene è Dio. Le lacrime sono la fonte del sentimento eterno.”1
Cresciuto all’interno di una semplice famiglia spagnola nei principi fondamentali del cattolicesimo, l’educazione che riceve alla scuola di Mendive gli dà alcuni concetti liberali in materia religiosa. In primo luogo, impara a rifiutare il culto ufficiale dominato da una gerarchia soggetta alla Corona dal Royal Board of Trustees che lo rende complice dei suoi interessi politici. Allo stesso tempo, il suo maestro, Rafael María de Mendive, che è stato discepolo del Seminario di San Carlo e Sant’Ambrogio nella sua fase più luminosa e ha bevuto gli insegnamenti di Giuseppe di Luce e Cavaliere, conserva dalla dottrina cristiana l’accettazione dell’esperienza di Dio, specialmente manifestata nella natura e nell’anima umana, nonché l’etica personale e sociale che può derivare dai Vangeli. Il valore del sacrificio personale, la sacralità della sofferenza umana, l’amore come forza unificante sono distaccati dai dogmi e dalle pratiche religiose per forgiare una particolare spiritualità.
Il testo di cui sopra presenta un Dio che ricorda il “servo in lutto” del profeta Isaia (Is 53,1-5). L’esperienza umana del suo dolore porta alla bontà, non al risentimento:

“Il martirio per la patria è Dio stesso, come il bene, come idee di spontanea generosità. Picchiarlo, ferirlo, contuso. Sei troppo vile per essere colpito da un colpo e ferito. Sento in me questo Dio, ho in me questo Dio; questo Dio in me ha pietà per voi, più pietà dell’orrore e del disprezzo.”2

Significativamente, la prima esperienza di ingiustizia in una colonia spagnola dove la Chiesa, con poche eccezioni, sostiene le scelte integraliste, non ha trasformato Martí in un agnostico orientato al positivista, come è successo con tanti liberali del suo tempo. L’intellettuale prende contatto in Spagna e nel suo pellegrinaggio attraverso l’America con i principi del liberalismo. Sostiene in Messico e Guatemala i governi laici che separavano la Chiesa di Stato, e rifiuta le strutture religiose alleate con le oligarchie tradizionali. Difende la libertà di espressione, la libertà di insegnamento e di culto, ma la sua accettazione della modernità non lo indirizza a un denariante scientificismo dello spirito. Al Liceo Hidalgo in Messico, nel 1875, partecipò alla controversia tra sostenitori del materialismo e dello spiritualismo e si schierava con quest’ultimo. Quello stesso anno è il suo poema “Dead”, dove l’immagine del Cristo crocifisso si trova nell’asse tra cielo, terra e abisso, coloro che, in mezzo a un cataclisma cosmico, acquisiscono un nuovo significato con il sacrificio redentore.

Un registro incrociato con un altro registro;
Un cadavere- Gesù – affondò l’argilla,
E allo splendido bagliore di un sogno,
Il ginocchio cadde nella terra del mondo.
Un secolo finisce, nasce un altro secolo,
E l’uomo della croce canta abbracciato,
E sul vile cadavere dell’Insulto,
L’Universo adora inginocchiarsi!3

Nei versetti c’è un’ovvia traccia del cantico che include san Paolo nell’Epistola ai Filippesi (Fil 2,5-11), su cui avrebbe dovuto riflettere in quei tempi.
Martí non è un uomo religioso nel senso di aderire a un corpo dogmatico e a un culto specifico. Diffida del sacerdozio stabilito e del suo ruolo di mediazione tra uomo e divinità. Accoglie quindi con favore un’idea della modernità, quella della ricerca dell’unità religiosa. Così, nella prefazione ai Racconti di oggi e di domani, di Rafael de Castro Palomino, si riferisce all’esistenza di una “nuova Chiesa” che definisce attraverso un’immagine della natura: “Tutti gli alberi della terra si concentreranno alla fine su uno, che darà nell’eterno aroma di Suavísimo: l’albero dell’amore:–di rami così robusti e abbondanti , che nella sua ombra si rifugierà sorridendo e in pace tutti gli uomini! 4
Nella spiritualità del Martirio convergono molti elementi diversi: la tradizione etica cubana che viene dai grandi educatori, non solo quelli già menzionati, ma il loro predecessore esemplare, il sacerdote Félix Varela, la predicazione di riformatori liberali cattolici come Vigil e poi padre Mc Glynn, per il quale si è schierato di fronte alla curia americana; La lettura diretta dei Vangeli da parte di Ernest Renan, in parte illuminata da Le origini del cristianesimo di Ernest Renan, specialmente per quanto riguarda il salvataggio del Gesù storico e la riconciliazione della sua dottrina con lo stoicismo di Marco Aurelio ed Epicteto; ammirazione per la filosofia di Emerson, specialmente per quanto riguarda la Natura come manifestazione di Dio e la ricerca dell’unione delle individualità in una sorta di “super anima” universale, attraverso una scala mistica. Da questo e dall’incoraggiamento che nella poesia del romanticismo e del modernismo ha preso la spiritualità delle immagini cristiane e delle transunità neoplatoniche è stato forgiato un modo di vivere ed esprimersi che autori molto diversi hanno concepito come simile a quello di un mistico.
Fu, forse, Rubén Darío nel suo saggio “José Martí”, scritto non appena venne a conoscenza della caduta dell’eroe, che cominciò a relazionarlo con la mistica. Lì associa l’asscatico di questo a quella che chiama la “scala del dolore” che lo lega al maestro spirituale belga del XIV secolo Jan van Ruysbroeck. Indica che dall’autore dello specchio della bellezza eterna sembra aver ripreso la nozione dei quattro fiumi dell’anima: “il fiume che sale, che conduce all’altezza divina, che porta alla compassione per le anime prigioniere, gli altri due che avvolgono tutte le miserie e la pesantezza del gregge umano ferito e perduto.”5
Già nell’ottobre 1905, il giovane intellettuale Pedro Henríquez Ureña fu il primo a sottolineare, in un articolo pubblicato sul quotidiano La Discusión de La Habana, la vicinanza dello stile dello scrittore con “l’intensità emotiva di Teresa de Jesús”. Poco più di tre decenni dopo, Gabriela Mistral insistette su questo legame, specialmente nei semplici Versetti, anche se afferma che il poeta si sbarazzò della “siccità interiore” della mistica sporgente e fu in grado di vivere “sul nascere dell’essere, cieco con la luce come l’allodola nello specchio, ma senza cadere bruciato dal tremendo riverbero.”6
Sebbene questa disposizione spirituale trascenda tutta la sua opera, è nei Versi Semplici che diventa più evidente. Le circostanze favorivano una cosa del genere. Lo scrittore, angosciato da ragioni politiche e intime, si allontana dalla città per guarire corpo e anima. In un rifugio vicino ai Monti Catskills vive “esercizi spirituali” in cui, ritiratosi dalla sua vita quotidiana, ne esamina l’interiorità e, contro il punto con l’esperienza della natura e l’ampiezza di riferimento della sua cultura umanista, legge una manciata di versi come risultato della sua meditazione purificante.

In questo quaderno stretto, nome fuorviante, perché la sua apparente semplicità è piena di profondi enigmi, come con i Vangeli, l’autore avanza attraverso le sue quarantasei parti, che non sono poesie indipendenti, anche se a volte le isoliamo per goderne meglio, ma cicli, unità di pensiero. Transito da “Io sono”, “Ho visto”, al “Lo so”, alla ricapitolazione dei tesori della memoria, dai capelli argentati del padre, alla memoria della ragazza guatemalteca o della ballerina spagnola. Amore carnale e spirituale, godimento della vista e dell’udito completato dal palato, memoria permanente della Patria e con essa desiderio di giustizia, tutto si muove in un mondo densamente simbolico che finalmente converge su quel Dio “dove vanno i defunti” e nel cui giudizio l’essere e la scrittura, la vita e l’opera non possono essere separati.
In tutto il quaderno, gli elementi presi dalla spiritualità cristiana appaiono esplicitamente. Il primo è associato all’origine divina della bellezza, un concetto platonico ripreso da sant’Agostino e presente negli scritti di molti diversi autori mistici:

L’ho visto nella notte buia
Mi piove sopra la testa
I raggi della luce pura
Della bellezza divina.7

È la “via illuminante”, cioè l’apertura dello spirito alla luce, dopo la purificazione ascatica. Dove deriva l’autore da un’immagine così potente? Forse ricordò il racconto apostolico di Pentecoste, o la sua illustrazione in uno dei famosi dipinti del Greco, o lo prese leggendo alcuni degli autori spirituali neoplatonici, forse Plotino o lo pseudo Dioniso Areopagita. Forse uno degli autori mistici fondamentali dei Secoli d’Oro in Spagna, San Giovanni della Croce, era molto più vicino a lui, che nelle sue poesie e trattati spiegò la via dell’anima a Dio attraverso notti buie. Questo legame tra il frate del Carmelo e lo scrittore cubano continua, come vedremo in altri passaggi del libro.
Un altro aspetto degno di nota è il ruolo dato alla Natura, come creazione divina e come spazio privilegiato per adorare la trascendenza. Nella terza delle poesie non solo contrastano la “maschera e il vizio” dell’hotel che è un riflesso ridotto della città, con la semplicità e la purezza del paesaggio incontaminato, ma la montagna diventa un tempio, uno spazio liturgico. Anche l’influenza degli insegnamenti di Emerson su questo è indiscutibile, ma nemmeno la reminiscenza di una delle poesie più notevoli del Maestro Mendive, “La preghiera serale”: “Saliamo il nostro tempio sulla montagna / Tenendolo per il tetto allo stesso cielo, / Illuminando la stella, tappezzando il pavimento / E un albero per altare”.8
Martí sembra avere questi versi molto vicini, solo che la quiete e la malinconia del suo predecessore, in lui sono sostituiti dal confronto e dalla controversa vivacità. Si oppone al tempio costruito dagli uomini allo spazio solitario e naturale, favorevole alla contemplazione e alla meditazione. L’albero sostituisce la colonna, il cielo funge da volta e l’altare viene sostituito dal letto di roccia, dove l’uomo dorme il sogno che lo comunica con l’alto e lo fa crescere. Appunto, la strofa finale, con il suo improvviso tono di irritazione, si oppone alla religione e alle sue liturgie, sottoposte a tradizioni e convenzioni umane, alla decisione sacramentale dell’uomo di natura primordiale:

Dillo al vescovo cieco,
Al vecchio vescovo di Spagna
Lasciatelo venire, lasciatelo venire più tardi,
Al mio tempio, alla montagna!9

Tuttavia, nel poema V siamo disturbati da un’immagine che ci rimanda a un altro testo. Dopo aver definito il suo verso come un monte di schiume, un pugnale, un fornitore, arriva la densa stanza del simbolismo:

Il mio verso è un verde chiaro
E da un carminio in fiamme:
Il mio verso è un cervo ferito
Alla ricerca nel Monte Amparo.10

E il cervo ferito ci riporta a San Giovanni della Croce, che in una delle misteriose strofe della sua “Canzone Spirituale”, la tredicesima, ci dice:

Girati, piccione,
che il cervo ha violato
dalle sbirciatine otero
nell’aria del volo, e cool take.11

Ma, se il denso simbolismo di questi versetti non fosse stato sufficiente, nel trattato dedicato dai religiosi a chiarire il significato spirituale del poema troviamo questo passo che il poeta cubano avrebbe potuto sottoscrivere:

“Confronta il marito con il cervo, perché qui dal cervo si capisce. Ed è noto che la proprietà del cervo è quella di salire nei luoghi alti, e quando viene ferito va in grande fretta a cercare rinfreschi nelle acque fredde; e se sente la consorte lamentarsi e sente di essere ferita, allora va con lei e la dà via e la accarezza. E così fa ora il Marito, per aver visto la Moglie ferita del suo amore, anche lui al gemito di lei viene ferito dal suo amore; perché negli amanti la ferita è di ensems, e la stessa sensazione è entrambi. E questo è come per dire, Turn, mia moglie, a me, che se sei pieno d’amore con me, come il cervo, vengo, in questo tuo dolorante, a te, che sono come il cervo. E anche nella pipì in alto, motivo per cui dice:
dall’otero sbircia fuori.”12

Avventura segreta, ansia di impossibile, ribellione davanti all’ordine umano storto eppure fedeltà piena di mitezza a una realtà superiore ci sono in entrambi i cervi. Poi mi viene in mente la lettera del cubano a Manuel Mercado, scritta nel 1886: “Io sono, guarda come mi sento, come un cervo messo alle angolo dai cacciatori nell’ultima cavità della caverna.”13
Va ricordato che il simbolo del cervo, o del cervo, attraversa le pagine della Bibbia, da quella sete di acque divine nel Salmo 41, a quello che incarna il Marito nel Canto dei Cantici e che è servito come fonte diretta a San Giovanni della Croce. I primi cristiani consideravano sia un’immagine di carità che i fedeli si prestavano l’uno all’altro sia un simbolo di battesimo che conferisse grazia agli esseri umani e la forza di subire il martirio, così nelle catacombe e nelle pale d’altare delle antiche chiese latine appaiono cervi dipinti o scolpiti scortando le figure di martiri e confessori.
Accanto a questo, gli argomenti di Leonardo Acosta non dovrebbero essere respinti, che nel suo articolo “Martí decolonizador: Notes on natural symbolism in Martí’s poetry” si riferisce alla presenza del cervo o del cervo nelle mitologie mesoamericane; tra gli huicholes c’è l’animale che aiuta la creazione del sole, che lo solleva al cielo tra le sue corna e all’apertura del mondo con il suo sacrificio di sé, perché il suo sangue nutre la terra e fa germogliare il mais.14 Sarebbe spiegabile se quei miti fossero combinati a Martí con quelli della tradizione classica e giudeo-cristiana, in un’altra delle sue ammirevoli sintesi culturali.
Il transito dall’ascetismo all’illuminazione ritorna nel poema XXVI, solo che questi sono ora correlati dal simbolo centrale del cristianesimo, la croce redentore:

Quando al peso della croce
L’uomo morente risolve,
Esce per fare bene, lo fa, e torna
Come un bagno leggero.15

Questo è il testo della “medicina dell’amore”, l’unico in grado di guarire quella ferita o malattia che poeti erotici e mistici hanno lamentato nei loro versi. È lo stesso amore, tradotto come bontà, carità che arricchisce sia chi lo dona che il ricevente, l’unico che può conferire vera salute spirituale, perché porta in sé l’accettazione del sacrificio con tutta la sua amarezza e dimenticanza.
Nella maturità dei Versi Semplici, la perfetta padronanza della proprio, messa da parte l’amarezza, l’agonia visibile e solo la nozione di ciò che è necessario e persino la gioia rimane per quel transito in cui si passa dalla morte quotidiana alla vita nuova e permanente. La sofferenza personale acquisisce una dimensione sociale e la purificazione dello spirito dà accesso a un’autentica risurrezione.
Cintio Vitier ha scritto che si tratta di “una sorta di Libro della Saggezza, con le sue illuminazioni clamorose e i suoi momenti enigmatici”.16 La perfezione formale delle sue stanze e quel tipo di apparente autonomia di ciascuno hanno fatto concentrare la maggior parte dei lettori sul paladeum isolato di alcuni, o per isolare unità specifiche come IX e X , corrispondente a “La niña de Guatemala” e “La bailarina Española”, lette, memorizzate e persino cantate come testi autosufficienti. Tuttavia, è necessario soffermarsi sull’architettura del volume, nel transito da un soggetto all’altro, da un’unità strofied all’altra, per sorprendere sia le illuminazioni che gli enigmi.
In primo luogo, il quaderno è una delle zone metapoetiche più dense all’interno della creazione nei versi martirizzati. E non solo per la famosa quinta parte: “Se vedi una montagna di schiume”, ma per la continua riflessione tra la poesia e il suo oggetto, il suo rapporto con la natura e l’esistenza umana, così come i suoi obblighi etici.
Tutto questo si basa su una spiritualità molto particolare. Prima di tutto, è una spiritualità incarnata, non c’è negazione del materiale, nessun isolamento del mondo. Nella parte XXXVI, c’è un esplicito riconoscimento dell’importanza della materia, quella con cui un cielo può essere fatto, un bambino, ma anche lo scorpione e il verme della rosa.
L’esperienza dell’amore carnale, a volte associato ai pericoli del tradimento, della crisi etica o del tedio, ha una parte apprezzabile del libro, in particolare i testi tra il XVI e il XXI, sebbene segnino anche altre parti del tutto. Tuttavia, il poeta, al quale non esiste una definizione ristretta di erotico, al di là dell’amarezza vissuta nella chiave personale, è in grado di trasporre l’esperienza su un piano più universale e alto:

Sono un accogliente, sono un salterio
Dove vibra l’Universo:
Vengo dal sole, e al sole vado:
Io sono amore: io sono il verso! 17

Nel libro i forti contrasti, così romantici, tra il bello e il brutto, l’alto e il basso, ricordano nel XII l’atmosfera radiosa della mattinata di sole in cui il poeta rema nel lago, improvvisamente ostacolato dal fetore di un pesce morto nella barca; o il grottesco di alcune scene come quella del XIII in cui “Un angelo camminava / Con la testa calva” che ci rimanda ad alcune strofe provocatorie di Heine.
La penna dello scrittore diventa un pennello goyesque mentre affronta esplicitamente la questione sociale. Non risparmia violenza e nemmeno qualche tremendismo nelle sue immagini. Ricorda al XXVII la mostra delle sue memorie giovanili della notte degli eventi del Teatro Villanueva con la brutale repressione di strada da parte dei volontari spagnoli, o nel XXX la visione dello schiavo impiccava un seibo dalla montagna, senza dimenticare quei piccoli drammi, un po’ sperpntici, che vengono inseriti tra loro: il padre che porta nella tomba il figlio arruolato nelle file del nemico e la ragazza che canta nel compleanno del re anche se suo fratello è stato colpito da lui. Nessuna materia umana è estranea al poeta. Ecco perché nell’XLV puoi forgiare quella strana poesia visionaria dove cammini attraverso la galleria di statue di proceres e puoi dialogare con loro e persino riportarli in vita con l’invito a rimuovere il male e rinnovare il genere umano.
Ma il taccuino non si chiude con i toni eroici di quelle stanze, che per un attimo sembrano perdere la facile melodia di altre sezioni per vincere il tono alto e solenne dei Versi liberi. La sua ultima parte, l’XLVI, riacquista il senso metapoetico, è in conversazione con il suo verso che il poeta vuole dire addio al lettore. Versi confidenti, catartici, purificanti, una compagnia essenziale per la vita, convergono entrambi in quel verso finale e tremendo, in cui entrambi si presentano davanti alla divinità:

Versetto, parlaci di un Dio
Dove va il defunto:
Versi, o siamo condannati insieme,
Oppure abbiamo salvato entrambi!18

Il brano si riferisce a un motivo evangelico. La nozione cristiana di vita dopo la morte, preceduta da un giudizio in cui l’anima è giustificata dalle sue azioni o da esse condannata, come stabilito nel Vangelo di Matteo (Mt 25,31-46). Posto ipoteticamente prima di questa prova alla fine dell’esistenza, Martí sceglie l’unità del destino della vita e del lavoro, l’impossibilità di de-blindarli. Egli assume gloria o inferno per se stesso e per il suo verso perché covano un tutto, ciò che comprende materia e spirito e resiste a tralascio tutto ciò che fa parte della complessa esistenza umana.
È la conclusione di una spiritualità sapientemente incarnata e avvolgente che lo prepara per gli ultimi giorni, il Martí de los Diarios, che María Zambrano ha visto ritratto al massimo in quelle ultime pagine:

“Era sulla sua strada per la sua morte, la sua; perché raggiunge solo una sua morte, quella che ha compiuto fino alla fine. Chi ha realizzato la sua impresa attraversando tutti i momenti essenziali che rendono umana la vita dell’uomo: angoscia, amarezza superata dalla forza della generosità; solitudine, quella solitudine in cui l’essere si sente tremante e perso nella vastità dell’universo e anche nella compagnia di tutte le cose, la più alta e la più lontana e la più umile e la più vicina. Chi ha fatto il doppio viaggio: la discesa negli inferni dell’angoscia e la fuga della certezza. Martí aveva viaggiato attraverso l’orbita di un uomo che assume totalmente, interamente la sua vita: ecco perché teme la sua morte intima, che lo attendeva come il segno supremo del suo essere.”19

Era di nuovo il cervo ferito e la montagna lo accolse come suo, in esso si stava dissociando, facendo sbarcare, terra cubana. Ω

Note
1 José Martí: “The Political Chair in Cuba” in Complete Works, Havana, Editorial of Social Sciences, 1975, t. 1, p. 45. [Di seguito: O.C.].
2 Ibid., p. 61.
3 José Martí: “Morto”, in O.C., t. 17, p. 62.
4 José Martí: “Prologo ai racconti di oggi e di domani”, in O.C., t. 5, p. 103.
5 Rubén Darío: “José Martí”, in José Martí, L’Avana, Casa de las Américas, Valoración Multiple, 2007, t. 2, p. 38.
6 Gabriela Mistral: “I versi semplici di José Martí”, in José Martí, ed. cit., t. 2, p. 67.
7 José Martí: “Versi semplici” (I), in O.C., t. 16, p. 63.
8 Rafael María de Mendive: “La preghiera del pomeriggio”, in Scioperi dell’acqua. Antologia di poesia cubana di tema religioso, L’Avana, Lettere editoriali cubane, 2008, t. 1, p. 98.
9 José Martí: “Versi semplici” (III), in O.C., t. 16, p. 69.
10 José Martí: “Versi semplici” (V), in O.C., t. 16, p. 72.
11 San Giovanni della Croce: Cantico Spirituale, Santo Domingo, Carmelitana Editore dei Caraibi, 1991, p. 17.
12 Ibid., p. 81.
13 José Martí: “Lettera a Manuel Mercado [marzo-1886]”, in O.C., t. 20, p. 84.
14 Cf. Leonardo Acosta: “Martí decolonizador: notes on Nahuatl symbolism in Martí’s poetry”, at Casa de las Américas (L’Avana) 13 (73): luglio-agosto 1972.
15 José Martí: “Simple Verses” (XXVI), in O.C., t. 16, p. 101.
16 Cf. Cintio Vitier: Il cubano nella poesia. Settima lezione: “Arrival at the Fullness of the Spirit…”, Havana, Editorial Cuban Letters, 1998, pp. 168-207.
17 José Martí: “Simple Verses” (XVII), in O.C., t. 16, p. 91.
18 José Martí: “Simple Verses” (XLVI), in O.C., t. 16, p. 126.
19 Maria Zambrano: “Martí, via della sua morte”, Boemia, L’Avana, 1°. febbraio 1953, consultato http://www.josemarti.info/articulos/marti_zambrano.html il 4 agosto 2018.

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